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Il virus della violenza: il contagio passa dai media

Ogni giorno assistiamo a episodi di violenza fisica, verbale e virtuale, che non riguardano solo gli adulti, ma anche giovani e adolescenti, tra i quali la violenza si propaga come un virus subdolo di cui non si rendono conto. Una delle esperienze più amare del mio ministero episcopale si è verificata nel 2008 quando ho avuto un dialogo con un gruppo di ragazzi dopo la morte di una ragazza quattordicenne che era stata violentata, uccisa e gettata in un pozzo da altri coetanei. Con mia grande sorpresa la maggior parte di loro non esprimeva disapprovazione per quest’assassinio ma in qualche modo lo giustificavano. Alcuni di questi ragazzi erano gli stessi che nel 2007 avevano seguito con interesse la fiction’”Il capo dei capi”, identificandosi con Totò Riina e non con il poliziotto Biagio Schirò.

La serie televisiva Gomorra ha spaccato l’opinione pubblica fra chi ha sostenuto che la cruda descrizione della cattiveria, analizzata criticamente, serve per combatterla e non per emularla e chi invece è convinto che si tratti di una specie di “droga mediatica”, che in una situazione socioculturale fragile può legittimare comportamenti  devianti in giovani che sentono il fascino del male. Non si può negare che il virus della violenza è trasmesso anche grazie ai social network, che per i giovanissimi sono ormai la principale forma di comunicazione.

Oggi l'educatore o il diseducatore più influente è l'ambiente con tutte le sue forme espressive a partire dai mass-media e dai nuovi  virtuali genitori  ed educatori elettronici. Essi sono molto di più che meri “strumenti” e acquistano il valore di fattori costitutivi dell’ambiente vitale delle persone. Il problema non è di demonizzare la Tv o Internet, ma di porre l’educazione consapevole e critica al loro uso tra gli obiettivi fondamentali dei vari educatori. Papa Francesco, in un suo messaggio per la 50° Giornata Mondiale per le Comunicazioni Sociali, aveva ricordato come “L’ambiente digitale è un luogo d’incontro, dove si può accarezzare o ferire”.

Il progressivo aumento di situazioni di disagio, di violenza, di aggressività verso cose e persone, di un diffuso analfabetismo etico, fa emergere la necessità di ricorrere al vaccino dell’educazione ai valori morali delle nuove generazioni. L’affievolirsi del senso della moralità nelle coscienze e nei comportamenti denuncia una mancanza educativa in rapporto non solo alla formazione sociale dei cittadini, ma anche alla stessa formazione personale. È necessario far emergere nell’opera educativa la dignità e la centralità di ogni persona umana, l’importanza del suo agire in libertà e responsabilità, il suo vivere nella solidarietà e nella legalità.

Il senso della moralità non s’improvvisa. Esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidate alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia, alla scuola, alla comunità ecclesiale, alle associazioni giovanili, ai mezzi di comunicazione sociale, ai sindacati, alle organizzazioni di categoria, agli ordini professionali, ai partiti e alle varie istituzioni pubbliche. E’ necessario un lavoro lungo, lento, capillare, volto a educare più che a reprimere, a far capire, più che a promettere premi o minacciare castighi. Per educare bisogna essere convincenti da parte degli adulti, accompagnando le parole con la testimonianza di esempi efficaci, che facciano sentire il fascino e la bellezza di una vita buona.

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