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Da Gaza a Gerusalemme Est: la Via Crucis dei cristiani

La guerra in corso ha aumentato le sofferenze della comunità cristiana della Striscia. Ma la vita è difficile anche nel resto del Medio Oriente

Stretti tra gli orrori della guerra e la consapevolezza di non poterne fuggire, se non con la preghiera. È il destino che, oggi come all’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, sembra riservato alla comunità cristiana della Striscia di Gaza, che da mesi fa quadrato attorno alla chiesa della Sacra Famiglia, l’unica parrocchia cattolica presente in quel lembo di terra. Un piccolo avamposto di speranza che, nelle fasi più dure degli scontri armati, ha dato ospitalità e rifugio a chi era stato costretto a fuggire, consentendo il rafforzamento della fratellanza con gli altri civili e, quindi, con le altre confessioni del luogo. Eppure, anche il tentativo di resistere nella propria enclave territoriale si è dimostrato alquanto difficile. Da un lato per il prosieguo senza sosta della guerra tra Israele e Hamas, dall’altra per la sempre maggiore difficoltà nell’accedere agli aiuti umanitari.

L’accoglienza dei cristiani

Allo stato attuale delle cose, la Striscia di Gaza rappresenta un luogo di sofferenza per la Chiesa cristiana. Eppure, tra le macerie cittadine e l’apparente oscurità sulle speranze di rinascita, spicca ancora la luce dell’accoglienza: “La maggior parte dei circa 1.000 cristiani presenti nella Striscia di Gaza – ha spiegato a Interris.it Massimiliano Tubani, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre Italia – prima dell’attacco sferrato da Hamas è stata accolta dalle strutture parrocchiali latine“. Nonostante questo, i bisogni restano impellenti, su tutti i fronti e in tutti i contesti: “Agli sfollati mancano elettricità, acqua potabile e cibo. Dato che le loro case sono state distrutte, sono stati accolti nelle strutture scolastiche cattoliche”.

Cisgiordania e Gerusalemme Est

Chiaramente, la Striscia di Gaza è solo uno dei quadri drammatici che, di questi tempi, caratterizzano la vita delle comunità cristiane del Medio Oriente: “Il conflitto – ha spiegato ancora Tubani – ha avuto un forte impatto anche sui cristiani palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Basti pensare che circa il 40% di loro lavorava nel settore dei pellegrinaggi e del cosiddetto turismo religioso, per cui più di 3.000 famiglie hanno perso il lavoro”. Sul fronte dell’assistenza, il lavoro di Aiuto alla Chiesa che Soffre non è mai cessato, né prima né durante l’emergenza: “Acs sta finanziando numerosi progetti in collaborazione con il Patriarcato Latino di Gerusalemme ma la situazione è molto più problematica di quanto noi occidentali possiamo percepire. Per fare un solo esempio, raccontatoci dal Patriarca Pizzaballa, ci sono cattolici del Vicariato ebraico che prestano servizio nell’esercito a Gaza, e cattolici che vengo­no bombardati nella stessa Gaza. Ciò testimonia la lacerazione che affligge anche i nostri fratelli nella fede, senza contare il resto del conflitto armato”.

L’altro Medio Oriente

Le tensioni interne a un Paese o a una determinata area del Pianeta alimentano il dramma di chi soffre. E, in questo, il Medio Oriente ben testimonia quanto minoranze e non possano patire lo scotto dei conflitti in modo simile. Finendo, fin troppo spesso, per sperimentare dei contrasti. I cristiani iracheni, fino al 2014 residenti nella Piana di Ninive, nel nord del Paese, hanno vissuto sulla loro pelle il peso dell’invasione alimentata dal nefasto seme fondamentalista. Eppure, nemmeno in quel contesto è mancato l’aiuto a chi era stato schiacciato dall’odio e scacciato da milizie jihadiste: “Nel luglio 2014 – ha detto Tubani – Aiuto alla Chiesa che Soffre è stata la prima organizzazione ad aiutare gli sfollati cristiani e da allora ha finanziato quasi 500 progetti per un valore di oltre 56 milioni di euro. I benefattori della fondazione pontificia hanno sostenuto circa 95.000 rifugiati provenienti da Mosul e dalla Piana di Ninive”.

I cristiani tornati

La liberazione di Mosul, avvenuta nel 2017, ha consentito un’estensione degli aiuti ma, purtroppo, non una ripresa definitiva della vita comunitaria: “Gli aiuti hanno garantito la sopravvivenza di circa 11.800 famiglie cristiane e la scolarizzazione di 7.200 bambini. Dopo la liberazione dal dominio dell’ISIS, l’attenzione si è spostata sulla ricostruzione. ACS ha sostenuto il restauro di quasi 3.000 case e ha coperto i costi dell’elettricità per le famiglie che tornavano. Nel 2020 circa 40.700 persone avevano fatto ritorno ai loro villaggi. Successivamente sono stati ricostruiti o riparati i 363 edifici ecclesiastici colpiti dalla guerra”.

Creare una nuova cittadinanza

C’è tuttavia molto da fare. Perché l’ombra della dominazione fondamentalista è ancora viva e nemmeno l’instabilità del governo locale aiuta a rimettere in piedi la vecchia vita: ” Non si può ingenuamente affermare che la situazione sia serena. La preoccupazione più immediata per la sicurezza sono le milizie sostenute dall’Iran nella Piana di Ninive; inoltre, nonostante l’ISIS sia stato sconfitto militarmente, non lo è stato sul piano ideologico, come dimostrano anche le azioni di singoli radicalizzati in Europa. Vi è poi la necessità della creazione di una cittadinanza che non escluda le minoranze”. Un aspetto cruciale su cui lavorare.

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