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Dietro le mura del carcere: testimonianze “lontane dalla vita degli altri”

Papa Francesco aprirà una Porta Santa ai Rebibbia il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, segnando un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari.

Per l’Anno Santo Francesco aprirà una Porta Santa nel carcere di Rebibbia. “Non siamo materiale di scarto”, insegna il Pontefice, esortando tutti a non perdere di vista la “porta della speranza”. Perché “non c’è vita umana senza orizzonte”. L’invito è a “non cedere mai allo sconforto”. E a considerare che l’esistenza di ciascuno come un “dono unico per noi e per gli altri, soprattutto per Dio che mai ci abbandona e sa ascoltare, gioire, piangere con noi”. Il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, il Papa aprirà la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, segnando un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari. Varchi, porte che sarebbe più giusto chiamare portali. Ovvero luoghi che, come i collettori di dati che siamo abituati a frequentare ogni giorno nel nostro mondo digitale, contengono infinite possibilità e infiniti percorsi.

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Foto © Clemente Marmorino (Imagoeconomia)

Diversa direzione

Non a caso, riferisce Silvia Guidi (Vatican news), “Io contengo moltitudini” è il titolo dell’opera che sarà inaugurata proprio nella casa circondariale di Roma Rebibbia il 26 dicembre, in occasione dell’apertura della Porta Santa, firmata dall’artista Marinella Senatore. E realizzata insieme a tutta la popolazione carceraria, pensata per essere vista dai detenuti e dai loro familiari. “Scabre e dense, ricche di umanità rappresa, di energia sepolta sotto la rassegnazione, pronta a esplodere in una diversa direzione, in un sorriso sghembo, in un guizzo di comicità che rivela e libera”. Così la scrittrice Laura Bosio, nella prefazione a “Lontano dalla vita degli altri”, descrive le storie che Giovanna Canzi e Gabriella Giandelli – se pur con linguaggi diversi – dedicano a chi vive in una struttura penitenziaria. Luoghi posti ai margini della città, spesso vicini a discariche, in edifici dove il tempo sembra essersi fermato. Se Giovanna Canzi, con i suoi racconti, ci prende per mano e ci accompagna a conoscere gli studenti a cui ha insegnato per quattro anni presso la Casa Circondariale della sua città, Monza, Gabriella Giandelli, illustratrice di fama internazionale, con il suo sguardo malinconico ci invita a percorrere lunghi corridoi dove la vita scorre dolente fra il clangore di porte chiuse con furia e il filo spinato che ferisce lo sguardo.

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Foto di Larry Farr su Unsplash

La realtà del carcere

Un intreccio di parole e immagini che mostrano un mondo di dolore e privazione, dove non mancano, tuttavia, possibilità di cura e riscatto. Un riscatto che può sicuramente passare attraverso la scuola che – come sottolinea nella postfazione Corrado Cosenza, a lungo referente regionale dell’Istruzione degli adulti e penitenziaria all’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia – “è presente nelle carceri italiane fin dal 1891 come attività obbligatoria”. Ma chi sono gli uomini che vivono chiusi nell’isolamento e che studiano per prendere la licenza media? Lo raccontano i brevi ritratti di Giovanna Canzi – quasi delle istantanee che trattengono il ricordo di un incontro che lega per sempre insegnante e studente – e lo raccontano i disegni di Gabriella Giandelli che ha saputo dare un volto a chi ha bisogno di essere “sognato”, come scriveva Danilo Dolci, per poter esistere. Un libro che invita a entrare in silenzio fra le mura di un carcere e conoscere da vicino quelle persone che non sono solo il reato che hanno commesso, perché ci somigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere. Perché il male non è altro da noi e non è estraneo alle nostre coscienze.

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Foto di Ye Jinghan su Unsplash

Lontani e invisibili

Ripartire da dove il filo si è spezzato: perché fornire una istruzione (non sempre ma spesso) aiuta a costruirsi un’altra vita. E’ il senso della esperienza raccontata in “Lontano dalla vita degli altri” (Marinonibooks, 72 pagine) di Giovanna Canzi, giornalista, editor, curatrice di mostre che a un certo punto della sua vita si ritrova a insegnare in un carcere lombardo, docente della Settima sezione, quella dei detenuti protetti, sex offender, ma non solo. E’ un mondo a parte in un universo che è già per definizione “lontano dalla vita degli altri”. Anche se gli “altri” lo vorrebbero ancor più lontano e invisibile). D’altronde il carcere sorge vicino a una discarica: e forse non è un caso. E’ – inutile dirlo – una esperienza che non si può vivere con indifferenza, e Giovanna Canzi la affronta con una partecipazione che fa breccia fra i suoi allievi particolari. La formula scelta non è quella del racconto classico, ma di istantanee scattate – con occhio partecipe e mano leggera – agli studenti che partecipano alle lezioni, talora diffidenti, più spesso curiosi e “affamati”.

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Carcere (© Marcello Rabozzi da Pixabay)

Frammenti del carcere

Sono ritratti (accompagnati dalle suggestive illustrazioni di Gabriella Giandelli, scarne, evocative, quasi monocromatiche, come in un “mondo triste”) nei quali è bandito ogni pietismo. Figurarsi un qualsiasi giudizio morale. L’eco di quello che è successo “prima” non risuona nelle aule, né nelle pagine del libro. Nell’universo parallelo e senza tempo del carcere si può insegnare utilmente solo se ci si astiene dai giudizi: le sentenze sono già state emesse, e non solo da un giudice. In diversi di questi ritratti è persino omesso il reato all’origine della condanna. E’ un’informazione superflua per questo tipo di letteratura. Proprio come gli orologi, che – come scopre subito – spesso sono rotti o fissati su orari sballati, perché in un certo senso in carcere il tempo non esiste. Da “operatrice” sensibile e consapevole Giovanna Canzi si è immersa in questo compito con dedizione totale, ha curato progetti di reinserimento, ha ascoltato, guidato, promosso iniziative. Come una giardiniera devota, ha seminato e lasciato germogliare l’amore per parole che aiutassero a vivere e non a odiare. Poi l’esperienza è finita e come lei stessa ammette “lo strappo è stato doloroso”. Ma è, come si capisce dal tono partecipe di questi ritratti, uno strappo mai definitivamente compiuto.

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