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Tassi di interesse: perché la questione è centrale nell’Ue

La questione dei tassi di interesse, anche se sembra non appassionare molto la gente in questo periodo caratterizzato dalla crisi di diversi settori dell’economia e dagli eventi geopolitici, è, invece, centrale in Europa. Nessuno può negare che l’azione della BCE negli ultimi due anni abbia provocato un brusco arresto nella ripresa del continente dopo la crisi pandemica del biennio 2020-2021 e che sia, oggi, uno dei principali motivi che stanno spingendo l’Unione in uno scenario recessivo.

Su queste pagine, più volte, si è analizzato l’operato dei vertici della Banca Centrale che, trattando il rialzo dei prezzi innescato dal surriscaldamento delle quotazioni delle fonti energetiche, soprattutto, come inflazione, alzarono il costo del denaro in maniera goffa e senza una vera visione fino ai livelli record mantenuti fino a inizio anno aumentando così il costo del credito e spingendo i risparmi alla capitalizzazione per via del peggioramento delle aspettative o, meglio, della difficoltà nel formare queste ultime per via di un’azione sempre di reazione e mai realmente pianificata.

Da buoni burocrati con una visione dogmatica dell’economia, i membri del board attuarono una serie di rialzi per contrastare l’inflazione indicando che anche una recessione sarebbe stata sopportabile per evitare la continua progressione dei prezzi che, però, si è fermata non già per la stretta monetaria ma per l’imbocco di un sentiero di normalizzazione dei prezzi sui mercati internazionali di gas e materie prime. Con la discesa dei prezzi ecco che, magicamente, a Francoforte hanno iniziato a ridurre il tasso di riferimento seppur con una certa cautela.

Non importa che la Germania sia entrata in una profonda crisi, non importa che la Francia stenti sempre di più e che l’Italia, alle prese con un debito pubblico assai elevato e funestato da alcune iniziative assurde, si trovi in difficoltà a livello di finanza pubblica per la contrazione di quella crescita economica, finalmente, ritrovata dopo anni di stagnazione, no… non importa nemmeno che il tasso rilevato di inflazione sia, finalmente, arrivato al di sotto del livello obiettivo, addirittura molto al di sotto in alcuni Stati membri, quello che si teme, ancora, è che l’inflazione possa risalire spinta dalla progressione salariale che è conseguenza naturale di ogni shock inflattivo, dimenticando che questa nasce da una questione contrattuale e non automatica come avveniva in questo Paese ai tempi della “scala mobile” (quello sì un fortissimo elemento inflattivo).

Oltretutto di là dell’oceano la FED ha iniziato un programma di riduzione del costo del denaro con un primo “maxi-taglio” che rischia di squilibrare i rapporti valutari tra dollaro e euro poiché l’economia in America resta robusta e tassi più bassi spingeranno nuovi investimenti, mentre in Europa la crescita resta asfittica, strozzata sia dalla sostenibilità del debito sia dai lacciuoli che certe norme, possiamo definirle temerarie (?), hanno stretto intorno alla produzione industriale.

In questo scenario entra il discorso tenuto da Fabio Panetta, governatore di Bankitalia, qualche giorno fa all’Università Bocconi in cui si soffermava sulla direzione opportuna che la politica monetaria dovrebbe intraprendere oggi, con lo “shock inflattivo” alle spalle e di fronte al progressivo deterioramento dei fondamentali economici continentali. Benché Christine Lagarde sostenga che non si prevede alcuna recessione in Euro-area (ma probabilmente confonde i desiderata con i dati oggi esistenti e certificati da ogni istituto di statistica), la futura politica economica dell’entrante amministrazione Trump in USA potrebbe avere un impatto reale sull’economia già traballante del Vecchio Continente, non certo per la questione “dazi” che, come indicato nello scorso articolo, potrebbe essere più una minaccia che un programma realistico ma per la sicura azione di riapertura dei tavoli per accordi commerciali più favorevoli all’America che all’UE anche considerando che “the Donald” potrebbe preferire una pattuizione one to one, cioè con i singoli partner commerciali piuttosto che con un’UE che, in verità, poco conti a livello geopolitico.

Ecco, quindi, che il nuovo scenario che si sta aprendo con la fine di questo 2024 dovrebbe spingere ad un’azione più incisiva a livello di politica monetaria, abbandonando definitivamente ogni restrizione monetaria per giungere a un livello almeno neutro dei tassi di riferimento. Ok, la domanda che sorge in questo caso è “ma qual è questo livello neutro?”. Diciamo che si considera neutrale una forbice dei tassi tra il 2% e il 2,5%, se superiore si entra in una fase restrittiva e se inferiore in una fase espansiva.

Ora è evidente che non si sia più in un’epoca dove possa essere necessario l’azzeramento dei tassi come successe nel 2012, anche perché la presenza di tassi positivi scoraggia le bolle speculative dando un elemento di stabilità ulteriore al sistema economico ma il ritorno a un range neutrale o, anche, leggermente espansivo di questi porterebbe nuovo ossigeno a una situazione di crescita asfittica come quella odierna.

La cosa singolare è che i vertici dell’Eurotower ben conoscono lo stato dell’economia continentale e per i corridoi serpeggi il timore, seppur non palesemente dichiarato, di una nuova crisi poiché come indicato nella Financial Stability Review l’economia europea è sempre più vulnerabile di fronte alle tempeste finanziarie poiché “l’accresciuta incertezza geopolitica, i deboli fondamentali fiscali e la lenta crescita tendenziale sollevano preoccupazioni sulla sostenibilità del debito sovrano in alcuni paesi dell’area dell’euro”.

In questo solco si innestano, quindi, le parole dell’economista capo della BCE, Philip Lane, che prevede che la politica monetaria non resterà ancora a lungo restrittiva poiché questa risulta essere uno dei principali freni alla crescita economica che, come risulta dai dati sugli indici PMI, risulta in sempre maggior contrazione con un deterioramento sempre più marcato nel settore manifatturiero e che comincia anche a intaccare anche il settore terziario.

A fronte di questo scenario cominciano a circolare voci di un taglio più deciso dei tassi con la riunione del board tanto che gli analisti stanno scommettendo su un taglio dello 0,5% che riporterebbe il tasso di riferimento sotto il 3% cosa che sicuramente avrebbe un impatto notevole sulle aspettative future anche se, probabilmente, ancora non risolutivo senza l’ufficialità di un piano credibile di politica monetaria a breve-medio termine che, però, sembra non essere, almeno non ancora, nell’agenda.

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