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VENTITRE’ ANNI FA LA STRAGE DI CAPACI E LA MORTE DI FALCONE

Per chi ci passa lo svincolo di Capaci non passa inosservato. Il tempo sembra fermarsi per qualche istante e subito ci si rende conto dell’importanza di quel luogo. Lì è cambiata la storia di questo Paese; la mafia non è stata ancora sconfitta ma dentro molti di noi qualcosa è cambiato: si è acquisita la consapevolezza che il silenzio, a volte, uccide più delle pallottole. La criminalità organizzata si vince non avendone paura, con il rispetto delle istituzioni e delle leggi. Questo è stato il messaggio lasciatoci non solo da Giovanni Falcone ma tutti i martiri di Cosa Nostra e delle altre piovre che attanagliano questo Paese disgraziato. E le persone che a Palermo scesero in piazza nella rivolta dei lenzuoli che seguì la morte di Paolo Borsellino lo avevano capito. Come lo hanno capito le migliaia di ragazzi che al sud, e non solo, oggi aiutano commercianti e imprenditori a non cadere nelle grinfie delle cosche.

Tutto è partito da lì, da quel 23 maggio 1992. Falcone e la moglie Francesca Morvillo erano di ritorno da Roma lungo l’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raiisi (oggi intitolato proprio al magistrato ucciso e al collega Borsellino) porta a Palermo. La morte del giudice era stata decisa da Totò Riina e dalla cupola già da qualche anno ma gli attentati, compreso uno dinamitardo a ridosso della villa al mare di Falcone, erano falliti. Assieme e dopo di lui altri dovevano morire, come l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli che lo aveva voluto affianco a sé nella Capitale per combattere la mafia.

Quando il corteo uscì dallo scalo i bossi e i killer furono avvertiti. Fu Giovanni Brusca ad azionare il telecomando quando le auto giunsero all’altezza dello svincolo. Il primo veicolo fu spazzato via dall’esplosione, fu ritrovata in un uliveto, al suo interno o sparpagliati attorno ad essa i resti mutilati di tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. L’auto di Falcone fu travolta dalla montagna di asfalto e polvere che si sollevò. Il giudice e la moglie, privi di cintura di sicurezza, urtarono con violenza il parabrezza. Moriranno poche ore dopo tra le urla di giubilo dei mafiosi reclusi all’Ucciardone.

Nello stesso giorno alla Camera si votava per l’elezione del presidente della Repubblica e chissà quanti di quei politici di un pentapartito morente sapevano quel che sarebbe successo. Lo accerterà, forse, il processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia che potrebbe farci vedere sotto un’altra ottica quella drammatica stagione. Ma questa è un’altra storia…

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