Nella mentalità comune, il carcere è visto principalmente come il luogo in cui chi ha commesso un reato deve scontare la propria pena. Purtroppo, non è ancora radicata la piena consapevolezza che anche chi sbaglia ha il diritto di pentirsi e di ottenere una seconda possibilità. Questo processo di rinascita non è facile, ma rappresenta un’opportunità per scrivere un nuovo capitolo della propria vita.
L’intervista
In occasione della Giornata per la Vita, Interris.it ha intervistato Sabrina Gaiera, della Cooperativa Sociale Intrecci. Questa realtà nasce con l’obiettivo di costruire comunità locali che riconoscano la dignità di tutti, a partire dai più vulnerabili, come i bambini e le persone ai margini della società. Tra queste, anche coloro che stanno scontando una pena in carcere, per i quali la cooperativa offre percorsi di accoglienza e affiancamento per un reinserimento sociale.
Sabrina, ad oggi in Italia, il sistema carcerario riesce a mettere il detenuto nella condizione di iniziare un percorso di riflessione sui propri errori e di ripartenza?
“Purtroppo, questo è ancora un’utopia. Tale possibilità si realizza solo in alcune strutture particolarmente attrezzate e riguarda un numero molto limitato di detenuti. Solo pochi, infatti, hanno accesso a percorsi psicologici di supporto per le patologie e le dipendenze comuni in carcere, e a programmi di rieducazione che li aiutino a riflettere sul reato commesso. Al contrario, il carcere si trasforma in un luogo di ozio, dove il tempo sembra non passare mai, e questa dura realtà non offre alcun valore positivo alla vita del singolo. Inoltre, la continua “migrazione” dei detenuti da una struttura all’altra non facilita la costruzione di progetti solidi e percorsi duraturi”.
Quali misure andrebbero adottate per ridurre la recidiva attraverso una formazione mirata?
“È stato dimostrato che la recidiva può arrivare fino al 70% se un detenuto esce dal carcere senza aver mai avuto accesso a misure di detenzione alternativa. Tra queste misure ci sono gli arresti domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali e il supporto terapeutico per chi ha disturbi legati alla dipendenza. La recente Legge Cartabia, ad esempio, si basa proprio su queste misure alternative e ha l’importante compito di responsabilizzare anche il territorio di riferimento, chiamato a rispondere in modo propositivo e concreto”.
Secondo lei, la nostra società è pronta a gestire il reinserimento di chi ha commesso un reato?
“Purtroppo no, e credo che si tratti ancora di una visione utopistica. Oggi prevale un atteggiamento vendicativo che vede nel carcere unicamente il luogo della punizione, un luogo da tenere distante dalla società, quasi come se fosse un’area “isolata”. Non a caso, molte case circondariali si trovano nelle periferie, lontano dagli occhi della maggior parte della cittadinanza, come se fossero realtà estranee da evitare”.
Quali sono i sentimenti più comuni tra i detenuti?
“Molti di loro, soprattutto stranieri, si trovano senza legami familiari, senza casa, senza lavoro e, in alcuni casi, anche senza documenti. Dopo mesi o anni di reclusione, senza un adeguato supporto, si trovano in uno stato di confusione e rabbia, che spesso li porta a tornare a delinquere. È fondamentale ascoltarli, offrire loro supporto e sostegno per evitare che tutto ciò si ripeta. Noi di Intrecci lavoriamo proprio in questa direzione, mettendo al centro la persona, aiutandola a riconoscere e rielaborare il proprio errore, ridandole dignità e speranza”.
Quanto è forte il desiderio di rinascita tra i detenuti?
“La volontà di cambiamento è molto forte in molti di loro, ma è fondamentale che le proposte di reinserimento vengano fatte al momento giusto. Ci sono molti detenuti che vogliono davvero chiudere con il passato e aprire un nuovo capitolo della loro vita. Certamente, il percorso non è facile, ma i numeri parlano chiaro. Da quando ho iniziato nel 2006, posso testimoniare che, seppur ci siano stati alcuni episodi di fughe da permessi premio e di allontanamenti da misure di affidamento, la grande maggioranza dei detenuti si è mostrata recettiva e motivata a seguire i percorsi proposti. La voglia di cambiamento c’è, ed è ciò che ci spinge a proseguire con il nostro lavoro”.
Il vostro è un compito molto delicato. Come avviene?
“Si tratta di un intervento impegnativo che spesso presenta degli ostacoli. Per questo motivo, per raggiungere l’esito sperato, è fondamentale lavorare in sinergia con altre figure professionali. Crediamo dunque nella costante collaborazione con i servizi che operano sul territorio, anche nel volontariato, e con altre realtà del terzo settore”.