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Ungaro: “Rotte terrestri più rischiose del Mediterraneo”

Il portavoce di Unhcr Italia Filippo Ungaro commenta con Interris.it i contenuti della seconda edizione del rapporto “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori”

A luglio sono arrivate sulle coste italiane 6.700 persone, il 38% in più rispetto al mese precedente, quando erano state meno di cinquemila (4.902).  Gli sbarchi sono la componente più nota, insieme purtroppo ai naufragi, del racconto delle migrazioni che passano per il Mediterraneo. Quel mare che bagna le coste dell’Europa, dell’Africa e del Vicino Oriente, papa Francesco l’ha definito “il più grande cimitero” del Vecchio Continente. Ma forse ancora più pericoloso di questo passaggio d’acqua è il deserto del Sahara. Qui le persone in movimento dall’Africa centrale devono transitare per raggiungere le coste da cui provare a imbarcarsi in cerca di una vita libera da conflitti, persecuzioni, miseria. Difficile fare stime del numero di persone che perdono la vita o risultano disperse nell’attraversamento del più vasto deserto caldo del mondo, ma potrebbero essere di più di quelle del Mediterraneo. Questo in base alle testimonianze dei migranti intervistati per il rapporto “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori”, frutto del lavoro congiunto dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e del Mixed migration centre (Mmc). Un’indagine sulle rotte terrestri africane condotta tra il 2020 e il 2023. “Si deve osservare il fenomeno (delle persone in movimento, ndr) nella sua totalità, quando si parla di migrazioni ci si concentra solo sugli arrivi in Italia”, spiega a Interris.it il portavoce di Unhcr Italia Filippo Ungaro, “ma in questo spostarsi, riscontriamo violenze, violazioni di diritti e morti che ipotizziamo essere superiori a quanto succeda in mare”.

L’intervista

Come si spiega l’aumento di persone sbarcate in Italia a luglio rispetto al mese precedente?

“Si può spiegare sia per le condizioni climatiche e del mare, con la bella stagione c’è un incremento delle partenze, sia per le condizioni geopolitiche. E’ tornata a crescere la conflittualità nel continente africano, tra le milizie nel Sahel che si fronteggiano e la guerra civile in Sudan che ha prodotto complessivamente undici milioni di sfollati”.

Quali sono cause di questi spostamenti?

“I conflitti restano la più importante, ma ci sono anche gli effetti del cambiamento climatico e le due cose spesso si combinano. Nel Corno d’Africa si alternano periodo di siccità a piogge molto forti che causano inondazioni, a danno dei raccolti”.

Quali sono le rotte via terra e quali Paesi di transito attraversano?

“Se tracciamo una linea che attraversa l’Africa centro-nord, dalla Somalia al Camerun in su, c’è un fortissimo movimento di persone dirette in Libia. Il fenomeno a est interessa praticamente tutto il Corno d’Africa, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Sudan e dal Sud Sudan, ed è meta anche di chi parta a ovest dall’Africa subsahariana e dal Niger, dalla Nigeria e dall’Algeria”.

Chi le attraversa?

“Sono movimenti misti. Ci sono persone in fuga da violenze e persecuzioni che avrebbero diritto a presentare domanda di asilo. Tra le prime dieci nazionalità ne abbiamo riscontrate diverse con alti tassi di riconoscimento delle richieste, come siriani e maliani. Così come ci sono soggetti che si spostano per motivazioni economiche. Non è detto che a loro sia riconosciuta la possibilità di restare nel Paese di arrivo. Su queste rotte subiscono molte forme di violenza, anche estrema”.

Ci può dire quali?

“Secondo quanto ha detto chi ha risposto all’indagine, si va dalla detenzione arbitraria alla tortura, dal rapimento a scopo di riscatto alla riduzione in schiavitù, dal lavoro forzato allo sfruttamento sessuale, fino all’espianto di organi. Gli intervistati hanno indicato come responsabili degli abusi le bande armate e le milizie, ma anche le forze armate e in alcuni casi i funzionari di frontiera”.

Abbiamo dati precisi sulle persone in movimento morte o disperse lungo queste rotte?

“Soprattutto a causa della vastità e della difficoltà di accesso a un’area come il deserto tra Tunisia, Algeria e Libia, è difficile dare cifre esatte. Qui in molti casi i vengono deportati i migranti, contravvenendo a quanto prevede il diritto internazionale. Il rapporto stima un numero di morti superiore a quelle che avvengono nella rotta del Mediterraneo centrale, se non il doppio. Secondo una rilevazione, tra marzo 2020 e quello ’23 ci sono stati cinquecento vittime in mare e un numero ancora maggiore lunga la rotta terrestre. Alle migrazioni irregolari si affianca una mancanza cronica di servizi di protezione”.

Come rendere questi viaggi più sicuri?

“Servono servizi di protezione, come centri, cliniche, ospedali, e accesso alla giustizia, a partire semplicemente dall’informativa legale sui diritti che si hanno quando si arrivo in Paese, a chi ci si può rivolgere se si è stati vittime di un abuso e quali possibilità si hanno per proseguire il viaggio. A Lampedusa tutta una serie di organizzazioni che lavorano nel sistema di accoglienza informa le persone sui loro diritti e si prende carico dei loro bisogni”.

Cosa fare di più?

“Quello che vediamo accadere sotto i nostri occhi è solo una parte del fenomeno. Andrebbe risolta in modo pacifico la conflittualità nazionale, per prima cosa, ma il problema non si risolve se non si pensa allo sviluppo di quei Paesi. Il Piano Mattei prevede un buon punto di partenza, con un certo tipo di sviluppo verso l’Africa, ma manca attenzione a questi servizi Ma intanto non deve venire meno l’attenzione alla protezione dei rifugiati”.

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