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Il popolo Sami, colpevole di essere l’unico indigeno in Europa

L’unica popolazione europea ufficialmente considerata come indigena, quella dei Sami, è costretta a subire, ancora oggi, forme gravi di razzismo e segregazione, in virtù di una coatta omologazione alla moderna “civiltà” occidentale.

I sami, circa 70.000 individui, vivono nella regione più settentrionale della Scandinavia e nella Russia (Penisola di Kola); per le loro caratteristiche storiche ed etniche non fanno parte della popolazione lappone. Più della metà si trovano in territorio norvegese, 20.000 in Svezia, poche migliaia in Finlandia e Russia. Al momento, vivono da “ospiti indesiderati”, privi di un’identità statuale, con rappresentanze nei parlamenti delle quattro nazioni in cui si trovano.

La loro identità culturale è molto forte e sentita (non si considerano minoranza bensì popolo) nonostante sia rimasta sconosciuta al resto del mondo, fino al 1555, quando sono stati citati in un testo, molto particolareggiato, dell’arcivescovo, scrittore, geografo svedese Olav Manson. In precedenza, c’era stata una menzione dello storico romano Tacito, nell’anno 98 dopo Cristo. Le informazioni, nei secoli successivi, non sono state esaurienti. I sami hanno continuato la loro vita nomade (almeno fino alla metà del Novecento) dedicandosi alla pesca, all’allevamento delle renne, principale risorsa in diversi ambiti della loro vita quotidiana e alla religione sciamana e animista, legandosi a divinità corrispondenti ai diversi aspetti della natura. In seguito, alcuni hanno abbracciato la religione cristiana, divisi tra ortodossi e luterani.

La discriminazione da parte delle altre popolazioni scandinave è sempre stata decisa e radicata, sin nelle scuole. La colpa dei sami non è quella di custodire ricchezze o potere bensì nel loro rifiuto, garbato, di accettare la civiltà occidentale e di rimanere ancorati a religiosità, tradizioni, culture, abitudini dei tempi più antichi, quasi incontaminati e restii al progresso.

In più, la loro presenza, ricordando quella degli indiani d’America, ostacola il graduale disboscamento che la civiltà occidentale richiede per lo “sviluppo” dell’urbanizzazione, per le nuove vie stradali o ferroviarie e per l’installazione di pale eoliche. Si tratta di una discriminazione razziale poco conosciuta e portata alle cronache solo nei tempi recenti.

Il film girato nel 2016, dal titolo “Sami blood”, affronta il tema del razzismo, in Svezia, nei confronti di questa etnia. La regia è di Amanda Kernell, una donna svedese di origine sami che ha vissuto in prima persona episodi di intolleranza. Popolo indigeno e originario, presente in Scandinavia prima di ogni altro, è stato costretto a subire studi di eugenetica da parte della Svezia già nel 1922. I rapporti sono rimasti sempre delicati.

In un articolo del 29 agosto 1997, dal titolo “Sweden sterilized thousands of ‘useless’ citizens for decades” (La Svezia ha sterilizzato migliaia di cittadini ‘inutili’ per decenni), pubblicato sul Washington Post, Dan Baltz, giornalista statunitense, scrive “Dal 1934 al 1974, 62.000 svedesi furono sterilizzati come parte di un programma nazionale fondato sulla scienza della biologia razziale […] Altre nazioni, inclusi gli Stati Uniti, hanno avuto i loro capitoli oscuri di sterilizzazione e sperimentazione medica sui poveri, sui detenuti o su coloro che sono in manicomio. Ma ciò che colpisce qui è che la Svezia era vista come un Paese con atteggiamenti illuminati verso i più deboli della popolazione”.

La Norvegia ha impedito, per quasi tutto il Novecento ai sami di parlare la propria lingua imponendo quella nazionale. La “Dichiarazione Onu sui diritti dei popoli indigeni” (DNUDPI), approvata nel 2007, dispone la completa uguaglianza di tali popoli, stimati in numero di circa 5.000, con le altre popolazioni, condannando qualsiasi discriminazione. Il 9 agosto di ogni anno si celebra la “giornata mondiale dei popoli indigeni”, proprio per valorizzare e tutelare queste genti e il loro modo unico di rapportarsi con il mondo, così tanto indigesto alle civiltà industrializzate e tecnologiche.

Il 2019 è stato anche l’“Anno internazionale delle lingue indigene”, per salvaguardare il patrimonio culturale delle circa 7.000 parlate in tutto il pianeta; la scomparsa degli idiomi meno diffusi può implicare una conseguente estinzione delle popolazioni che li parlano.

Papa Francesco, in occasione della cerimonia per la firma della Dichiarazione congiunta dei leader religiosi contro la schiavitù, il 2 dicembre 2014 ha precisato “Qualsiasi relazione discriminante che non rispetta la convinzione fondamentale che l’altro è come me stesso costituisce un delitto e tante volte un delitto aberrante”.

Il numero 40 (agosto 2018) del dossier elaborato dalla Caritas italiana, riferendosi ai dati di Cultural Survival e Amnesty International, ricorda “Secondo fonti autorevoli, oggi nel mondo vivono circa 370 milioni di coloro che si definiscono o vengono chiamati indigeni. Si stima che appartengano a più di 5000 gruppi diversi, sparsi in almeno 90 Stati, di cui il 70% del totale abita l’Asia”. A proposito del dibattito sul diritto di essere considerati “popoli indigeni”, si legge “La ricerca di una definizione accettata di ‘popolo indigeno’ serve per valutare senza pregiudizi chi ha diritto ad accedere a un elenco di garanzie e norme riconosciute a livello internazionale e nazionale da parte dei vari Paesi. Nell’accezione moderna coloro che popolavano le terre ancestrali prima ancora dell’era coloniale, praticando riti, culti e tradizioni proprie e che sono riusciti a trasmettere fino ai giorni nostri, sono in buona parte ‘meritevoli’ di essere considerati indigeni […] Se la popolazione indigena mondiale è il 5% del totale, rappresentano tuttavia il 15% di coloro che vivono in povertà. La Banca Mondiale sostiene che entro il 2030 più di 100 milioni di persone si impoveriranno a causa del cambiamento climatico”.

I mutamenti climatici hanno prodotto delle ripercussioni notevoli anche per questo popolo. Le renne, animali centrali nell’intera economia, subiscono lo scioglimento del permafrost, faticano a trovare muschi e licheni tra il ghiaccio (che ha sostituito la neve) e non riescono a nutrirsi a dovere.

Si tratta di una realtà europea minoritaria nei numeri e perciò dimenticata dai media; è necessario, invece, testimoniare le difficili e inaccettabili situazioni di questi ultimi del mondo. La proverbiale assistenza sociale dei Paesi scandinavi che l’opinione pubblica ritiene autentici fari nel rispetto della libertà, del benessere e delle aperture mentali, scricchiola dinanzi a queste situazioni così imbarazzanti.

L’aspetto più sconcertante è quello di notare come il trascorrere dei secoli non abbia cancellato forme di segregazione e come queste siano evidenti e quasi normate.

La gente sami si è aperta gradualmente al resto del mondo e intrattiene piacevoli incontri, eventi e manifestazioni di tradizioni locali, anche di carattere musicale e gastronomico, mostre di artigianato locale, con i turisti che hanno piacere e rispetto per tali abitudini. Questa è una via molto efficace per dar voce alla grave situazione e renderla nota al mondo intero, costringendo alla resa tutti i pregiudizi insensati nei loro confronti.

Occorre eliminare qualsiasi discriminazione che, complici il disboscamento e il cambiamento climatico, rischia di impoverire i sami e di avviarli a un’intollerabile estinzione.

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