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Parità di genere: è ancora un miraggio

La parità di genere ha mosso passi avanti significativi, ma la sua compiutezza rimane ancora un miraggio. La ancora insufficiente presenza femminile nella sfera pubblica ed economica non si esaurisce soltanto nell’esigenza di dare attuazione al principio antidiscriminatorio, con riferimento al sesso, secondo il dettato dell’art. 3 della Costituzione. Giuristi, economisti e sociologi si sono soffermati sugli effetti di sistema sul mercato del lavoro e sulle attività istituzionali collegati ad un maggiore coinvolgimento delle donne nella vita pubblica. In altri termini, il disequilibrio di genere rappresenta una vera criticità che incide negativamente sulla efficienza del sistema economico, sulla funzionalità degli organi preposti ad assumere decisioni di rilievo per l’interesse generale. Allora, non si tratta di una mera rivendicazione di pari opportunità ma di dare un impulso positivo al principio di efficienza dell’amministrazione.

Anche la giurisprudenza amministrativa ha espresso tale convincimento; una decisione del Tar Lazio (2011) si sofferma “sull’ormai acquisita consapevolezza dell’importanza del contributo del mondo femminile alla buona amministrazione”.  Si tratta di un contributo – proseguono i giudici – che si apprezza e si valorizza a livello normativo proprio sul presupposto della diversità di un patrimonio, umano, sociale e culturale, di sensibilità e professionalità, che si vuole acquisire ai meccanismi dell’agire pubblico. Proprio nella prospettiva di arricchimento dell’esercizio delle funzioni e del buon andamento, gli organismi pubblici sono tenuti a promuovere l’equilibrio nella rappresentanza di genere. Una composizione paritaria garantisce l’apporto collaborativo e un contributo di esperienze e sensibilità da parte di entrambi i generi. Analizzando il fenomeno da altro punto di osservazione, il Consiglio di Stato (2014) giustifica la necessità di incrementare la presenza delle donne per superare una diseconomia (rinuncia del 50% delle risorse disponibili) prodotta dalle asimmetrie di genere.

L’ordinamento italiano garantisce l’equità di genere, tutelando l’accesso al pubblico impiego attraverso l’art. 51 della Costituzione. Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici e alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza e a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne. E ancora, il Codice delle pari opportunità stabilisce il divieto di discriminazione nell’accesso agli impieghi pubblici, ribadendo che la donna può accedere a tutte le cariche, professioni, nei vari ruoli, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera. L’intento del legislatore è di impedire l’adozione di meccanismi che producono l’effetto di danneggiare il personale di genere femminile. In realtà, i dati dimostrano che l’accesso al mondo del lavoro, in special modo nel settore pubblico, non prevede particolari ostacoli per le donne. Le cose cambiano quando si tratta di assicurare le stesse opportunità di crescita professionale. L’espressione glass ceiling indica una situazione impeditiva che frena la progressione di carriera connessa a ragioni di natura sessuale, sociale, razziale o culturale. Si tratta del fenomeno del c.d. soffitto di cristallo e della ricerca di misure appropriate per combattere le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. Specifiche ricerche hanno acceso un faro sugli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Sebbene tali forme di flessibilità lavorativa rappresentino una facilitazione per la crescita occupazionale delle donne, favorendo un maggiore equilibrio tra lavoro e attività di cura in ambito familiare, esse, in realtà, finiscono per impattare negativamente sulla loro crescita professionale. Infatti, le organizzazioni lavorative, pubbliche e private, privilegiano la “cultura della presenza”, in cui è importante non tanto esserci ma mostrare di esserci. La maggiore presenza “fisica” nel luogo di lavoro, secondo la regola del “face – time”, costituisce un parametro di successo professionale, a prescindere del tempo effettivo impiegato da ciascuno nell’attività lavorativa. Così, per paradosso, le misure finalizzate a contemperare lavoro e vita privata finiscono per rappresentare una “trappola” per le donne che ambiscono a posizioni dirigenziali. Per colmare il gender gap occorre un cambio di mentalità che agevoli una riorganizzazione complessiva del lavoro, destrutturando tempi e luoghi di erogazione della prestazione a favore del principio di responsabilità individuale. Secondo pratiche virtuose orientate a valorizzare abilità e aspirazioni di ciascuno, al di sopra di stereotipi di genere.

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