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Sud Sudan: la testimonianza di padre Christian Carlassare

Padre Christian Carlassare, vescovo missionario comboniano in Sud Sudan, racconta ad Interris.it lo stato d'animo di un popolo, combattuto tra speranza e rassegnazione 

Il Sud Sudan è il paese più giovane al mondo e vive in uno stato di continuo conflitto che affonda le sue radici in decenni di storia. Il protrarsi di questa guerriglia e la crisi alimentata dal clima stanno incrementando le tensioni sociali, l’emergenza sfollati e lo stato di povertà della popolazione.

I missionari comboniani

I comboniani sono un istituto missionario fondato da San Daniele Comboni il cui primo scopo è l’evangelizzazione dei gruppi umani più poveri ed emarginati. Al momento i comboniani del Sud Sudan sono circa una quarantina divisi in nove comunità e luoghi di missione, e insieme anche ad altri istituti religiosi e la chiesa locale, promuovono un processo di conversione, di riconciliazione e di pace . L’evangelizzazione è considerata come una cura integrale della persona perché, nell’incontro con il Signore la gente diventa capace di costruire una società più fraterna.

L’intervista

Interris.it ha intervistato padre Christian Carlassare, vescovo missionario comboniano di Rumbek che dal 2005 si trova in Sud Sudan, terra a cui sente oramai di appartenere. Ogni giorno con le sue azioni cerca di testimoniare la fede e incoraggiare i processi trasformativi di riconciliazione, comunione e pace.

Padre Christian, chi è il popolo del Sud Sudan?

“É gente ambiziosa e orgogliosa per la tanta ricchezza umana che c’è, ma allo stesso tempo si tratta di una popolazione umiliata da tutta la storia che ha dovuto sopportare, a partire dalla schiavitù e dal colonialismo per finire con il susseguirsi dei conflitti e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse. Il loro cuore nutre un’aspirazione di pace e di vita dignitosa, ma in Sud Sudan non c’è generazione che non abbia conosciuto la paura, la violenza e la fame. L’esperienza comune è quella di un continuo stato di insicurezza, alternato da brevi momenti di tranquillità. Questa condizione ha marcato profondamente la psicologia delle persone che si definisce come un popolo di traumatizzati”.

I sud sudanesi come reagiscono al conflitto?

“Quando si nasce e si vive in un contesto del genere, ci si adatta pur di sopravvivere. Ad un certo punto si arriva anche a credere che la pace sia un sogno irraggiungibile e per questo ci si accontenta di essere ancora in vita, cercando di soddisfare l’immediato senza grossi progetti per il futuro. Tutti vogliono la pace, la sicurezza, e la ripresa economica, ma serve la consapevolezza che non arriva da un semplice accordo politico, ma deve partire dalla popolazione stessa. Le persone devono essere capaci di arginare ogni violenza e fermare le tante armi che sono presenti nel territorio nelle mani delle diverse comunità”.

Chi sono le prime vittime di questo stato di guerriglia continua?

“Il Sud Sudan ha mostrato quanto un conflitto militare possa prendere di mira i civili la cui sola colpa è quella di appartenere al gruppo etnico nemico. Il conflitto sta provocando saccheggi, distruzioni, un esodo di sfollati, il declino dell’economia, povertà e in alcune aree del Paese la più totale mancanza di servizi come per esempio scuole ed ospedali. Mai come in Sud Sudan le parole scritte da Papa Francesco in ‘Fratelli Tutti’ sono azzeccate: ‘Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica, e un fallimento dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male’”.

Papa Francesco più volte ha dimostrato la sua vicinanza. Questo popolazione riesce ad avvertirla? 

“Tutti i sud sudanesi senza divisione di credo vedono nella figura di Papa Francesco un padre e un vincolo di unità e di pace. Nell’aprile 2019 il Santo Padre ha convocato in vaticano i leader del Paese per un ritiro spirituale. A ciascuno di loro ha consegnato una Bibbia su cui era stata apposta una frase presa in prestito da papa Giovanni XXIII: ‘Cercare ciò che unisce e superare ciò che divide’. Al termine di quel ritiro il Papa si è inchinato a baciare i piedi di ognuno di loro a dimostrazione che solo l’umiltà e il servizio possono aiutare a superare la divisione. Il messaggio sottinteso era molto forte e si traduce in: ‘Ora anche voi fate lo stesso’. Il popolo lo ha sentito vicino e la sua visita al Paese è stata poi il coronamento di questo impegno per la pace”.

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