Papa Francesco ha celebrato la Santa Messa presso la spianata di Taci Tolu, a Timor Est, alla presenza di 600mila fedeli. Al Suo arrivo, ha assistito a una danza tradizionale di benvenuto tipica dell’accoglienza timorese. Alle ore 16.30 (9.30 ora di Roma), ha presieduto la Celebrazione Eucaristica. Dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’omelia in cui ha riflettuto sul messaggio di Isaia riguardo alla nascita di un figlio che porterà speranza e luce in un momento di decadenza morale e sociale. Isaia annuncia una liberazione non attraverso la forza, ma con il dono di un figlio. Questo richiama la nascita di Cristo, simbolo di amore, tenerezza e speranza. Riportiamo l’omelia in forma integrale.
L’omelia del Papa
«Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5). Sono le parole con cui il profeta Isaia si rivolge, nella prima Lettura, agli abitanti di Gerusalemme, in un momento prospero per la città, caratterizzato però, purtroppo, anche da una grande decadenza morale. C’è tanta ricchezza, ma il benessere acceca i potenti, li illude di bastare a sé stessi, di non aver bisogno del Signore, e la loro presunzione li porta ad essere egoisti e ingiusti. Per questo, anche se ci sono tanti beni, i poveri sono abbandonati e soffrono la fame, l’infedeltà dilaga e la pratica religiosa si riduce sempre più a pura formalità. La facciata ingannevole di un mondo a prima vista perfetto nasconde così una realtà molto più oscura e triste, dura, crudele, in cui c’è tanto bisogno di conversione, di misericordia e di guarigione. Per questo il profeta annuncia ai suoi concittadini un orizzonte nuovo, che Dio aprirà davanti a loro: un futuro di speranza e di gioia, dove la sopraffazione e la guerra saranno bandite per sempre (cfr Is 9,1-4). Farà sorgere per loro una grande luce (cfr v. 1) che li libererà dalle tenebre del peccato da cui sono oppressi, e lo farà non con la potenza di eserciti, armi e ricchezze, ma attraverso il dono di un figlio (cfr vv. 5-6).
Fermiamoci allora a riflettere su questa immagine: Dio fa splendere la sua luce che salva attraverso il dono di un figlio. In ogni parte del mondo la nascita di un bambino è un momento luminoso, di gioia e di festa, che infonde in tutti desideri buoni, di rinnovamento nel bene, di ritorno alla purezza e alla semplicità. Di fronte ad un neonato, anche il cuore più duro si riscalda e si riempie di tenerezza, chi è scoraggiato ritrova speranza, chi è rassegnato torna a sognare e a credere nella possibilità di un’esistenza migliore.
La fragilità di un bambino porta con sé un messaggio così forte da toccare anche gli animi più induriti, riportandovi propositi di armonia e di serenità. È meraviglioso quello che succede alla nascita di un bambino! E tutto questo non è che una scintilla, che ci rivela una luce ancora più grande, perché alla radice di ogni vita c’è l’amore eterno di Dio, ci sono la sua grazia, la sua provvidenza e la potenza della sua Parola che crea. Non solo, ma in Cristo, Dio stesso si è fatto uomo, bambino, per stare vicino a noi e per salvarci. L’invito, allora, davanti a questo mistero, è non solo a stupirci e a commuoverci, ma anche ad aprirci all’amore del Padre e a lasciarcene plasmare, perché possa guarire le nostre ferite, ricomporre i nostri dissensi, rimettere ordine nella nostra esistenza, fino a diventare il fondamento della nostra vita personale e comunitaria, a tutti i livelli.
A Timor Leste è bello, perché ci sono tanti bambini: siete un Paese giovane in cui in ogni angolo si sente pulsare, esplodere la vita. E questo è un dono grande: la presenza di tanta gioventù e di tanti bambini, infatti, rinnova costantemente la freschezza, l’energia, la gioia e l’entusiasmo del vostro popolo. Ma ancora di più è un segno, perché fare spazio ai piccoli, accoglierli, prendersi cura di loro, e farci anche noi, tutti, piccoli davanti a Dio e gli uni di fronte agli altri, sono proprio gli atteggiamenti che ci aprono all’azione del Signore. Facendoci piccoli permettiamo all’Onnipotente di fare in noi cose grandi, secondo la misura del suo amore, come ci insegna Maria nel Magnificat (cfr Lc 1,46-49), e anche in questa celebrazione.
Oggi, infatti, veneriamo la Madonna come Regina, cioè come la madre di un Re, Gesù, che ha voluto nascere piccolo per farsi nostro fratello, affidando il suo agire potente al “sì” di una giovane mamma fragile e povera (cfr Lc 1,38). E Maria questo lo ha capito, al punto che ha scelto di rimanere piccola per tutta la vita, anzi di farsi sempre più piccola, servendo, pregando, scomparendo per far posto a Gesù, anche quando questo le è costato molto, anche quando non comprendeva bene tutto quello che le stava succedendo attorno.
Perciò, cari fratelli e sorelle, non abbiamo paura di farci piccoli davanti a Dio, e gli uni di fronte agli altri, di perdere la nostra vita, di donare il nostro tempo, di rivedere i nostri programmi, rinunciando a qualcosa perché un fratello o una sorella possano stare meglio ed essere felici. Non abbiamo paura di ridimensionare quando necessario anche i nostri progetti, non per sminuirli, ma per renderli ancora più belli attraverso il dono di noi stessi e l’accoglienza degli altri, con tutta l’imprevedibilità che questo comporta. Perché la vera regalità è quella di chi dona la vita per amore: come Maria, e come Gesù, che sulla croce ha dato tutto, facendosi piccolo, indifeso, debole (cfr Fil 2,5-8), per far posto a ciascuno di noi nel Regno del Padre (cfr Gv 14,1-3).
Tutto questo è simboleggiato molto bene da due bellissimi monili tradizionali di questa terra: il Kaibauk e il Belak. Tutti e due sono di metallo prezioso. Vuol dire che sono importanti! Il primo simboleggia le corna del bufalo e la luce del sole, e si mette in alto, a ornamento della fronte, come pure sulla sommità delle abitazioni, attraverso la forma dei tetti. Esso parla di forza, di energia e di calore, e può rappresentare la potenza di Dio, che dona la vita. Ma non solo: posto a livello del capo, infatti, e in cima alle case, ci ricorda che, con la luce della Parola del Signore e con la forza della sua grazia, anche noi possiamo cooperare con le nostre scelte e azioni al grande disegno della salvezza.
Il secondo, poi, il Belak, che si mette sul petto, è complementare al primo. Ricorda il chiarore delicato della luna, che riflette umilmente, nella notte, la luce del sole, avvolgendo ogni cosa di una fluorescenza leggera. Parla di pace, di fertilità e di dolcezza, e simboleggia la tenerezza della madre, che coi riflessi delicati del suo amore rende ciò che tocca luminoso della stessa luce che riceve da Dio. Kaibauk e Belak, forza e tenerezza di Padre e di Madre: così Il Signore manifesta la sua regalità, fatta di carità e di misericordia.
E allora chiediamo insieme, in questa Eucaristia, ciascuno di noi, come uomini e donne, come Chiesa e come società, di saper riflettere nel mondo la luce forte e tenera del Dio dell’amore, di quel Dio che, come abbiamo pregato nel Salmo responsoriale, «solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi […] del suo popolo» (Sal 113,7-8).
Dal bollettino della Sala Stampa Vaticana