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Costa Concordia, Mario Pellegrini: “Ancora ricordo le urla dei naufraghi”

Le prime ore della tragedia avvenuta al largo dell’Isola del Giglio sono state raccontate in un libro dal primo soccorritore salito a bordo della nave da crociera

Sono passati dieci anni dal naufragio della Costa Concordia. La sera del 13 gennaio del 2012 la nave da crociera rimase coinvolta in uno dei disastri più grandi della storia italiana. C’erano quattromila persone a bordo, praticamente una città galleggiante che finì adagiata di traverso dopo aver urtato uno scoglio delle Scole davanti all’Isola del Giglio. Dopo lo squarcio, la nave iniziò a inabissarsi e tutti cercarono disperatamente di mettersi in salvo nel caos più totale. Ma come fu possibile che la Concordia, gioiello della flotta Costa Crociere, un gigante da 114.500 tonnellate di stazza e lunga 290 metri, fornita delle più sofisticate strumentazioni tecnologiche, finisse affondata, dopo aver urtato degli scogli, in condizioni di ottima visibilità e con mare piatto?

La nuova rotta

La nave salpò dal porto di Civitavecchia alle 19 del 13 gennaio diretta a Savona. Secondo la rotta programmata, doveva passare a circa metà strada tra l’Isola del Giglio e il Promontorio dell’Argentario ma, poco prima della partenza, il comandante Francesco Schettino convocò l’ufficiale cartografo per fargli tracciare una nuova rotta che consentisse alla nave di transitare nelle acque vicino all’isola, con l’intento di “fare l’inchino” al maître della nave, Antonio Tievoli, e al comandante Mario Terenzio Palombo, presente sull’isola, che aveva seguito Schettino nella sua formazione di ufficiale comandante.

Fu proprio la rotta decisa dal comandante Schettino, di “navigare secondo il suo istinto marinaresco, più a ridosso dell’isola, confidando nella sua abilità”, hanno scritto i giudici, a far finire la nave sul più piccolo degli scogli delle Scole, causando con il naufragio 32 morti e l’affondamento. 

Il comandante Schettino dopo la tragedia è stato condannato a 16 anni di carcere e sta scontando la sua pena nel carcere di Rebibbia, a Roma. La nave è stata poi rimorchiata nel porto di Genova e demolita nel 2014.

L’intervista

Mario Pellegrini, ex vicesindaco del comune di Isola del Giglio, sulla tragedia ha scritto un libro. Pellegrini fu il primo a salire a bordo per soccorrere i passeggeri intrappolati e, dopo sei ore, fu l’ultimo a scendere a terra.

Signor Pellegrini, cosa ricorda di quella notte di dieci anni fa?

«La tragedia della Concordia sconvolse la vita di tutti gli abitanti dell’isola. Nonostante siano passati dieci anni i ricordi sono ancora vivi, soprattutto per me. Io passai la notte del 13 gennaio del 2012 a bordo del transatlantico cercando di salvare la vita a molti passeggeri».

Quando è salito sulla nave cosa ha trovato una volta a bordo?

«Quella sera, quando la nave ha sbattuto contro gli scogli, io ero dall’altra parte dell’isola. Poi, appena ho saputo dell’incidente, sono arrivato sul molo con il sindaco Sergio Ortelli, erano quasi le 11 di sera. In quel momento stavano già sbarcando i primi passeggeri e io, in comune accordo con il primo cittadino dell’isola, decisi di salire sulla nave con il primo tender libero, mentre lui si sarebbe occupato dell’accoglienza. Mia moglie continuava a telefonarmi dicendomi di non correre pericoli, ma io da buon marinaio non potevo lasciare quelle persone da sole. Così, una volta salito a bordo, sono andato alla ricerca degli ufficiali. Ma non li ho trovati. Solo a notte fonda incrociai l’ufficiale Simone Canessa, l’unico ad essere rimasto a bordo della Concordia, e insieme abbiamo fatto sbarcare circa seicento persone».

Si dice che da solo lei sia riuscito a salvare una dozzina di persone che rischiavano l’annegamento.

«Mi trovavo sul ponte 3 della nave, quello che stava affondando, qualche ora prima che la nave si piegasse totalmente. Ero da solo e l’acqua del mare arrivava alla ringhiera del ponte mentre aiutavo le persone a scavalcarla, consentendogli in questo modo di salire sulle scialuppe. Così sono riuscito a far sbarcare un centinaio di persone, molte di loro erano anziani e bambini. Poi improvvisamente la nave si è ribaltata sul lato destro e ha cominciato ad affondare: l’acqua ha invaso i corridoi dei ponti 3 e 4 e ho cominciato a sentire le grida di alcune persone rimaste intrappolate. Quei corridoi erano diventati dei pozzi con le persone dentro che rischiavano di annegare. Erano una dozzina, terrorizzati. Io cercavo aiuto, gridavo, volevo che qualcuno venisse a darmi una mano. Poi ho trovato una corda che ho buttato nel corridoio, che nel frattempo si era trasformato in un pozzo, e ho detto alle persone di legarsi per agevolare la salita. Avevo le mani tutte screpolate, sporche di sangue e le braccia indolenzite a furia di issare le persone, ma non ho mollato. Non ho ceduto alla stanchezza e li ho salvati tutti da una morte sicura. Quella notte ci furono momenti di autentico caos, ché la paura purtroppo fa saltare qualsiasi principio e porta ognuno a pensare per sé. In determinate circostanze non si pensa agli altri e a pagarne le conseguenze sono sempre gli anziani, le donne, i bambini. Ricordo ancora di aver visto bambini piangere senza gridare, completamente terrorizzati».

Come ha fatto a mettere in salvo altri seicento passeggeri? Ha trovato qualcuno disposto ad aiutarla?

«Come ho già detto, a  notte fonda incrociai l’ufficiale Simone Canessa, l’unico a essere rimasto a bordo della Concordia e insieme abbiamo fatto sbarcare le persone grazie alla biscaggina, una specie di scala di corda. La nave era ormai ribaltata completamente da un lato e tramite questa corda abbiamo messo in salvo queste persone facendole calare dal dorso della nave fino alle scialuppe. Eravamo molto spaventati: la luce era scarsissima, non eravamo in grado di capire cosa potesse accadere ancora alla nave e soprattutto avevamo paura che la gente si buttasse in acqua. Fu estremamente difficile e complesso metterli tutti in salvo. Poi io e Simone siamo rientrati nella nave, aprendo diverse porte, per essere sicuri che dentro non fosse rimasto più nessuno».

In quei momenti non ha mai pensato che anche lei stava rischiando la vita?

«Sì, ma ero salito sulla Concordia di mia spontanea volontà, quindi con un unico obiettivo salvare i passeggeri, infondere fiducia e cercare di riportare la calma in una situazione completamente fuori controllo».

Dove ha trovato la forza per salvare tutte queste persone?

«Credo che sia stato Dio a darmi la forza di resistere: ho passato sei ore a salvare la vita di molte persone. Ho sempre cercato di mantenere il controllo di me stesso e alle 5.30 del mattino abbiamo fatto sbarcare l’ultima passeggera, una giovane donna con la gamba rotta. Io e Canessa fummo gli ultimi ad abbandonare la nave.

Rivive ancora quell’incubo?

«Dopo il naufragio della Concordia, inizialmente facevo fatica ad addormentarmi, avevo come dei flashback, mi tornava tutto in mente, rivivevo le scene, sentivo le urla, vedevo i visi pieni di paura delle persone che stavo salvando, le lacrime dei bambini e a volte, ancora oggi, mi chiedo se ho fatto davvero tutto il possibile. I ricordi di questa tragedia mi accompagneranno per il resto della mia vita».

Lei è uno degli eroi del Giglio, ma non ha avuto la stessa notorietà di altri.

«Per il resto del mondo sono un eroe nazionale, mi hanno intervistato molti giornalisti stranieri. L’unico encomio che ho ricevuto mi è stato assegnato dalla Protezione Civile».

Una volta a terra ha avuto modo di incontrare il capitano Schettino?

«No, mai incontrato. Ora sta scontando la sua pena. Spero  però che un giorno possa chiedere scusa alle famiglie delle trentadue vittime».

Lei è diventato amico di Nick Sloane, un altro eroe, l’uomo che ha vinto la sfida per rimettere in piedi la Concordia. Vi sentite ancora?

«Siamo diventati molto amici e ci sentiamo spesso. Lui è un altro eroe del Giglio, è un grande professionista ed è stato accolto da noi come una star. Non si aspettava questa reazione, molti lo hanno accolto con abbracci e applausi. Quando la Concordia lasciò l’isola, Nick mi abbracciò e si mise a piangere sulla mia spalla. Un uomo come lui, anche se abituato alle imprese impossibili, aveva paura che la nave potesse capovolgersi, ma alla fine è andato tutto bene e lui si è emozionato per il risultato ottenuto».

Tra pochi giorni uscirà il libro scritto da lei per Rizzoli proprio sulla tragedia del Giglio, intitolato “La notte della Concordia”. Cosa l’ha spinta a scriverlo? 

«Ho scritto questo libro con l’aiuto di Sabrina Grementieri cercando di ricostruire le ore frenetiche di quella terribile notte, trascorse nel tentativo di mettere in salvo il maggior numero di passeggeri. Attraverso il mio racconto voglio portare i lettori nei corridoi e sui ponti della Concordia e far rivivere in presa diretta gli attimi più drammatici, ma anche quelli di eroismo, dove oltre al sottoscritto anche altre persone quella notte misero a repentaglio la loro vita per gli altri».

È dedicato a qualcuno in particolare?

«Sì, ai miei figli Simone e Sofia. Quella notte avrebbero potuto perdere il loro papà. Io avevo appena 5 anni, quando persi mia madre a bordo di un aliscafo, finito contro uno scoglio a Santo Stefano, capoluogo del Monte Argentario. Oggi il comandante Schettino è in carcere e sta pagando la sua pena, ma i veri condannati al carcere a vita sono i parenti di quelle 32 vittime. E oltre a loro non va dimenticato nemmeno il sub spagnolo, Israel Franco Moreno, 40 anni, considerato la trentatreesima, che perse la vita durante i lavori di rimozione del relitto».

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