Studiare la natura dentro la natura stessa. Svestire i panni della studiosa da tavolino e indossare quelli di una lady Greystoke, per trarre dall’osservazione dei comportamenti sociali delle specie animali delle informazioni essenziali per capire anche un po’ sé stessi. Jane Goodall compie 90 anni e, buona parte di questi, li ha spesi nel cuore dell’Africa, tra le sterpaglie del bush e il fitto delle foreste, parte integrante delle comunità di scimpanzé che ha studiato vis a vis, cercando di fornire quelle risposte sull’origine dell’umanità che, da sempre, animano i dibattiti della scienza. Una vita che la ricercatrice non smette tuttora di condurre visto che, come ricorda la sezione italiana dell’Istituto che porta il suo nome, compie circa 300 giorni di viaggio all’anno, divulgando il suo lavoro e, soprattutto, l’esito itinerante delle sue ricerche.
Jane Goodall, la ricerca
Perché, in fondo, il suo lavoro non è mai del tutto terminato. Né dopo le prime osservazioni, quando nei primissimi anni Sessanta lavorava a fianco del dottor Louis Leacky nello studio delle grandi scimmie antropomorfe, né una ventina di anni dopo, quando le sue osservazioni avevano già aperto un mondo nuovo sui primati. Anche grazie al suo contributo, la vecchia Gombe Stream Chimpanzee Reserve, in Tanzania, è divenuta parco nazionale. O meglio, un santuario a disposizione degli scimpanzé e delle altre scimmie, un luogo prospero dove il contatto con l’uomo è limitato unicamente all’aspetto scientifico.
Del resto, l’attività di Jane Goodall fu d’ispirazione anche alla zoologa Dian Fossey che, tra i monti Virunga e il Volcanoes National Park del Ruanda, imbastì lo stesso tipo di ricerca con focalizzazione sui gorilla di montagna. Un’esperienza che accenderà una sensibilizzazione quasi mai vista, a livello internazionale, sul destino dei grandi primati e che finirà per ostacolare il bracconaggio a tal punto da provocare il suo violento omicidio.
Un messaggio per le donne
Il suo lavoro, Jane Goodall lo iniziò per passione. Non ancora laureata, il suo contributo agli studi di Leakey le consentirono di ottenere un dottorato senza aver ancora discusso la tesi di laurea. Un merito parallelo a quello di essere riuscita a imporre, con basi scientifiche, la propria autorevolezza in un campo fin lì quasi esclusivamente ad appannaggio maschile. Specie quello britannico che, pur da tempo rinnovato, destinava la disponibilità di spedizioni scientifiche quasi prettamente agli uomini.
Un messaggio implicito nel suo lavoro di ricercatrice: uno sprone alle donne a non limitarsi alla linea bibliofila ma a intraprendere la via della ricerca sul campo. Missione riuscita con Fossey e, via via, con colleghe sempre più numerose, parte delle quali sue compagne di viaggio nell’esperienza del Jane Goodall Institute, presente oggi in 28 Paesi. E, di recente, fautore di campi d’analisi anche del tutto nuovi, come l’effetto del Covid sulle grandi scimmie.
La guerra del Gombe
Tra le osservazioni più interessanti nei suoi 50 anni e oltre di attività, il comportamento fortemente territoriale degli scimpanzé e, per quel che riguarda alcuni gruppi, le tendenze aggressive (a scopo nutritivo e non) verso altri primati. O, in alcuni casi, tra gruppi stessi. Attriti sociali che culmineranno, a metà anni Settanta, in una vera e propria guerra, con episodi di estrema violenza iniziati il 7 gennaio 1974, con l’uccisione di un giovane maschio. Un comportamento che proseguì negli anni successivi, tra “risse”, rapimenti e prevaricazioni territoriali in una sorta di drammatico Risiko nel cuore della foresta del Gombe. Un episodio perdurante che non lasciò indifferente la ricercatrice, le cui relazioni si scontrarono con la reticenza della comunità scientifica nell’attribuire a dei primati dei comportamenti così prossimi a quelli umani.
Sensibilità ambientale
Ogni tassello della sua ricerca, tuttavia, fu utile per comporre un quadro d’insieme assai più vasto del santuario del Gombe. E decisamente più ampio della semplice osservazione dei primati. Prova ne sia che il monitoraggio costante degli ambienti del cuore africano abbia mostrato gli effetti sempre più evidenti sia dell’antropizzazione che del cambiamento climatico. Entrambi temi cari alla ricercatrice che, negli ultimi anni, ha improntato la sua divulgazione sulla conciliazione delle tematiche. Un invito a guardare la natura con occhi nuovi, istruiti da esperienze scientifiche concrete e da dati reali piuttosto che disorientati da informazioni prive di fonti. Un concetto semplice ma che, nel suo caso, è frutto di più di mezzo secolo di lavoro sul campo.