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Hate speech, quando l’odio viaggia (anche) in rete

Negli ultimi anni si parla con sempre maggior frequenza di hate speech, letteralmente discorso d’odio. L’enciclopedia Treccani lo definisce come “espressione di odio rivolta, in presenza o tramite mezzi di comunicazione, contro individui o intere fasce di popolazione, come stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili”.

Ciò che si evince da questa definizione è che l’odio è rivolto contro la persona in quanto tale: in quanto immigrata in un paese straniero, in quanto credente in una certa religione, in quanto con un determinato orientamento sessuale oppure in quanto portatrice di una disabilità. Per tale ragione nell’hate speech non c’è critica, non c’è la volontà di presentare una propria opinione diversa da quella altrui, non si formula un ragionamento. In altri termini nei discorsi d’odio non c’è un’idea.

I discorsi d’odio possono alimentare paure, divisioni; possono incitare alla violenza e inasprire tensioni. Sono l’opposto della mediazione e del dialogo. Sono uno dei segnali d’allarme del genocidio. Spesso sono rivolti a gruppi vulnerabili, rafforzando discriminazione, stigma ed emarginazione. Basti pensare all’uso che ne faceva nei suoi discorsi Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich; oppure ricordare la campagna d’odio contro i Tutsi prima del loro genocidio. In entrambi i casi il potente strumento utilizzato fu la radio.

Oggi la diffusione degli smartphone e dei social media ha portato ad una mutazione del fenomeno. Non è più solo chi ha il potere che può diffondere hate speech, ma chiunque. Lo dimostra una recente ricerca realizzata dall’ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità da cui risulta che il cyberbullismo dilaga tra i teenager europei: uno su sei tra gli 11 e i 15 anni riporta di aver subito episodi di bullismo online, mentre il 12% dichiara di essersi reso responsabile di questi atti.

In risposta alle allarmanti tendenze di crescita della xenofobia, del razzismo e dell’intolleranza e della proliferazione di odio online, le Nazioni Unite hanno deciso di promuovere una nuova giornata internazionale dedicata al contrasto dell’hate speech, che, a partire dal 2022, si celebra il 18 giugno di ogni anno.

Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 si desume che l’hate speech sia un abuso della libertà di espressione e pertanto vada vietato. Nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo si riconosce il diritto alla libertà di espressione (art. 10) ma anche il divieto di abuso del diritto (art. 17). Infine nel nostro ordinamento esistono varie norme a riguardo, oltre a quelle contenute nella costituzione. L’articolo 406-bis del codice penale punisce la “propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”. Si tratta di una norma introdotta nel 1975 e poi modificata dalla legge Mancino del 1993. Di recente, è stata approvata la legge 71 del 2017 che introduce disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo. In essa sono previste misure di carattere educativo volte a favorire una maggior consapevolezza tra i giovani del disvalore di comportamenti persecutori che, generando emarginazione, possono portare a conseguenze gravi sulle vittime che si trovano in situazione di fragilità.

L’odio non è un’idea e l’incitamento all’odio non è libertà d’espressione. Per questo occorre una giornata per educare sia ad avere un pensiero critico – capire cosa c’è dietro una notizia, un fatto –, sia alla responsabilità, dato che oggi ognuno può produrre contenuti.

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