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30 anni fa il genocidio in Ruanda: cosa non abbiamo imparato

Si celebra oggi la “Giornata internazionale di riflessione sul genocidio del 1994 in Ruanda”, istituita nel 2003 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il genocidio in Ruanda, classificato come “genocidio etnico”, con circa un milione di vittime, in soli 100 giorni, dall’aprile al giugno del 1994, ha posto quasi un sigillo alla connotazione sanguinaria e violenta del Novecento. È arduo comprenderne lo svolgimento e anche le ragioni e i torti. Vittime sono stati prevalentemente i Tutsi e carnefici, quasi bestiali e inconsapevoli, gli Hutu. Le possibili, non semplici, spiegazioni vanno ricercate avendo presente il contesto internazionale del momento e l’incapacità stessa delle Nazioni Unite di comprendere la novità terribile non più di singole esplosioni di violenze e di uccisioni, ma di una campagna di sterminio condotta dal basso, meticolosamente preparata dall’alto, cioè di un vero e proprio genocidio.

Più in generale, molte delle vicende drammatiche della recente storia africana si possono comprendere ripercorrendo la storia del dominio coloniale in Africa e della consapevole opera di divisione e contrapposizione attuata dalle potenze coloniali europee – in questo caso, il Belgio e la Francia – nel periodo del passaggio all’indipendenza, all’inizio degli anni Sessanta. Prima ancora possono essere individuate, nel caso specifico, le responsabilità della Germania, che nel periodo del suo breve dominio coloniale in Ruanda, concluso con la Prima guerra mondiale, privilegiò per ideologia razziale l’etnia dei Tutsi, percepiti come africani più belli ed evoluti, dai tratti somatici più simili agli europei e discriminò gli Hutu, presentati come brutti e selvaggi. Per non parlare della terza etnia, i Twa, considerati come prototipo degli Africani da emarginare e sterminare, come avvenne in Namibia, allora Africa sud-occidentale tedesca, con gli Herero all’inizio del secolo.

Nell’ultimo decennio del Novecento nel piccolo territorio del Ruanda, solo di 26.344 km², aveva una popolazione di circa 7 milioni, formatasi attraverso migrazioni successive, che si sono sovrapposte agli abitanti originari. Era composta da Hutu (90%), Tutsi (9%), Twa (1%), l’etnia pigmea autoctona, con una minoranza di Europei, perlopiù Belgi. La confessione religiosa prevalente era quella cattolica (60%). Un 25% della popolazione pratica le religioni tradizionali; seguono i Protestanti (14%) e i Musulmani (1%). Qualche breve cenno storico aiuta a comprendere: Il Ruanda fin dai tempi più remoti era abitato dalle etnie Hutu (Bantu) e Twa (Pigmei). Durante il XV secolo subisce l’invasione dei guerrieri e dei pastori Tutsi (Vatussi), originari dell’Etiopia. Soggiogate le popolazioni locali, i Tutsi fondarono un regno la cui struttura rimane inalterata anche dopo la colonizzazione tedesca. I tedeschi si insediano in territorio ruandese nel 1897, procedendo alla sua annessione all’Africa orientale tedesca, che comprendeva anche il Burundi e l’attuale territorio continentale della Tanzania.

Dopo la Prima guerra mondiale, il territorio denominato Ruanda-Burundi, passa nelle mani dei belgi che lo governano dal Congo. Dei tre gruppi etnici che abitavano la regione, fu la minoranza dei Tutsi a consolidare la propria egemonia grazie alle posizioni di rilievo loro assegnate nell’apparato amministrativo coloniale. Nel 1959, gli Hutu, organizzati nel Partito del movimento di emancipazione Hutu (Parmehutu), si ribellano alla monarchia dei Tutsi. Dopo una sanguinosa guerra civile, il governo belga decise di abbandonare questi territori. Vinte le elezioni tenutesi nel 1961 sotto la supervisione delle Nazioni Unite, il Parmehutu, proclamò, nel 1962, la repubblica, separandosi dal Burundi. La struttura gerarchica che favoriva i capi Tutsi fu abolita e la terra fu ripartita in appezzamenti privati. Non si formò una vera unità nazionale e non si riuscì a superare le differenze etniche. Nel 1963 scoppiò un’altra guerra civile, il cui bilancio fu di 20.000 vittime e a seguito della quale furono espulsi dal Paese 160.000 Tutsi. Di fronte alla minaccia di una nuova guerra civile, nel luglio 1973, il colonnello Juvenal Habyarimana, che fino a quel momento aveva svolto l’incarico di ministro della difesa, rovesciò con un colpo di stato militare il governo del presidente Kayibanda. Nel 1988 circa 60.000 rifugiati Hutu provenienti dal Burundi, tornano in Ruanda e nel marzo 1992 almeno 300 persone appartenenti all’etnia dei Tutsi sono uccise e altre 15.000 sono obbligate a rifugiarsi nella regione di confine del lago Mugesera. I leader dei due principali partiti all’opposizione, il Movimento democratico repubblicano (MDR) e il Partito liberale (PL), imputano al governo la responsabilità di questi episodi di violenza, di cui sono autori i giovani miliziani Hutu del Movimento rivoluzionario per lo sviluppo (MNRD).

Nel 1993, il Presidente Habyarimana respinge l’accordo firmato ad Arusha, in Tanzania, fra la delegazione del Ruanda, guidata dal primo ministro appartenente al Movimento democratico repubblicano, e i ribelli del Fronte patriottico del Ruanda, gruppo formato da esuli Tutsi che mettevano in discussione il dominio degli Hutu. Habyarimana si rifiuta di condividere il potere con il Fronte patriottico del Ruanda, che aveva avanzato richieste quali la concessione di cinque ministeri, l’integrazione delle sue truppe nell’esercito regolare e il rimpatrio dei rifugiati Tutsi in Uganda e Tanzania. Nonostante le due parti abbiano rispettato il cessate il fuoco dall’agosto 1992, nel febbraio 1993, il Fronte patriottico interrompe i negoziati per lanciare una nuova offensiva, a seguito della quale riesce ad ottenere il controllo su una parte del territorio.  L’assassinio di Habyarimana e del presidente del Burundi, Cyprien Nytaryamira, uccisi in un attentato aereo, dopo aver partecipato ad una conferenza di pace in Tanzania (6 aprile 1994) dà inizio a un nuovo bagno di sangue in tre mesi di scontri.

Il genocidio-conflitto etnico ruandese si consuma tra l’aprile e il luglio del 1994, nel contesto del conflitto fra i due eserciti, quello governativo, le FAR (Forze Armate Ruandesi) e quello degli insorti Tutsi, FPR (Fronte Patriottico Ruandese). È meticolosamente organizzata una campagna di sterminio dell’opposizione democratica e dei Tutsi. Gli esecutori dello sterminio sistematico sono i membri della Guardia presidenziale e i giovani miliziani dell’ex Partito Unico (MNRD). Gran parte delle uccisioni, centinaia di migliaia nel complesso, hanno luogo nei mesi di aprile e maggio. Le principali caratteristiche di questo genocidio, i cui aspetti sono poco conosciuti fino al 2000, si possono riassumere nei seguenti termini: un’organizzazione meticolosa da parte delle autorità centrali, attraverso l’uso sistematico della radio per comunicare in codice gli ordini di morte («abbattere gli alberi più alti»); il coinvolgimento attivo e diretto di una parte della popolazione Hutu e di molte comunità locali negli eccidi, compiuti spesso a colpi di machete e di bastoni chiodati; la rapidità dell’esecuzione (i tre quarti delle vittime sono uccise nelle prime sei settimane); lo stupro sistematico su vasta scala: 250 mila donne che, in gran parte dei casi contraggono anche l’AIDS.

Un film straordinario su questi drammatici e sconvolgenti fatti è “Hotel Ruanda”, del 2004, diretto da Terry George, regista che personalmente era stato partecipe, spettatore e vittima della tragedia nordirlandese. Sul piano internazionale, malgrado le testimonianze schiaccianti portate dal giurista ivoriano René Degni-Segui davanti alla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza rifiuta di qualificare come genocidio i massacri per il veto degli Stati Uniti d’America. Solo il 22 giugno del 1994 è votata la risoluzione 929 che prevede un’operazione umanitaria multinazionale di assistenza ai civili, autorizzata a ricorrere alla forza. È l’Operazione Turquoise che prevede, sotto il comando francese, il dispiegamento di 5.500 uomini. La Commissione dei diritti dell’uomo dell’ONU si pronuncia il 30 giugno del 1994 sull’avvenuto «genocidio programmato e sistematico», denunciando anche esplicitamente la responsabilità di diversi Stati stranieri, ad esempio la Francia, che negli anni precedenti aveva armato e inquadrato le forze governative. Di fatto, solo a metà luglio, con la vittoria del Fronte patriottico ruandese (FPR), cioè dei Tutsi, si pone fine al genocidio che ha provocato verosimilmente quasi un milione di vittime. Negli anni seguenti proseguono eccidi e massacri in tutta l’area dal Burundi e dal Ruanda, al Congo-Zaire, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale e nell’assordante silenzio dei media dell’Occidente.

Nel novembre del 1994 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha istituito il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR) con il compito di “perseguire le persone responsabili di genocidio e di altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio del Ruanda e degli Stati confinanti, tra 1° gennaio 1994 e 31 dicembre 1994”.  Il Tribunale aveva sede ad Arusha, in Tanzania, e aveva uffici a Kigali, in Ruanda. La sua Camera d’Appello aveva sede all’Aia, nei Paesi Bassi. Il Tribunale ha incriminato 93 persone ritenute responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse in Ruanda nel 1994. Tra gli incriminati figurano alti funzionari militari e governativi, politici, uomini d’affari, nonché leader religiosi, delle milizie e dei media. La corte ha condannato all’ergastolo il primo ministro durante il genocidio, Jean Kambanda. L’ICTR ha terminato il suo mandato il 31 dicembre 2015. Nel 2001, nel tentativo di eliminare l’arretrato di circa 115.000 casi di genocidio in attesa di processo, il governo ruandese annunciò il progetto di istituire tribunali locali di ricomposizione dei conflitti. L’istituto tradizionale cui si fa riferimento è la “Gacaca”, simile a quello sudafricano, chiamato “Ubuntu”, che, su coraggiosa indicazione di Desmond Tutu, costituì il fondamento ideale della “Commissione verità e giustizia”. E nella Repubblica del Sudafrica “arcobaleno” di Nelson Mandela, era stato possibile uscire dalla tragedia delle violenze e dei rancori dell’Apartheid. I tribunali “Gacaca”, in epoca coloniale, si tenevano all’aperto e i capifamiglia fungevano da giudici e svolgevano il compito di risolvere i conflitti tra famiglie. Il progetto di possibile, anche se non di facile realizzazione, è che, dopo tre decenni, si possa giungere anche nel martoriato Ruanda, dopo un processo di “verità e giustizia”, alla pace e alla riconciliazione.

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