Nell’era della cosidetta convergenza tecnologica e della rapidizzazione, che determina nelle vite e nelle economie un’accelerazione senza precedenti, in questa trasformazione epocale, sostenuta da quelle ibridazioni non ultime cervello-macchina, si maturano nuove forme sociali, concezioni e produzioni culturali.
Algoritmi, protesi elettroniche, ambienti ed aule immersive, metaverso, aree virtuali, una trasformazione che investe l’agire umano ed inevitabilmente anche la sua antropologia. Ci troviamo di fronte ad uno dei non pochi segni del cambio d’epoca come affermato da Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli Tutti, il cui tratto essenziale, può essere quello di correre il rischio della dissolvenza di ideali millenari e nel quale la mera ripetizione di canoni etici appare esercizio al tempo stesso afono e sordo.
L’obiettivo che ci poniamo in questa dissertazione sarà proprio quello di mettere al centro una chiara chiave di lettura unitaria, ossia la questione antropologica, che mostri, quale grido di senso e di speranza, di non cedere il passo ad una mera riduzione materialista dell’umano, ma al contrario ad una sua valorizzazione. Umberto Margiotta ci fa comprendere come nel nostro tempo: “Le transizioni diventino il paradigma esistenziale dominante; dei lavori, nei lavori, degli stili di vita, nelle ibridazioni delle competenze necessarie a far fronte alla necessità di nuovi mestieri, di nuovi orizzonti di successo formativo, di nuovi profili di azione necessari a governare il valore d’uso delle esperienze e delle tecnologie, senza più distinzione tra momento pubblico e dimensione privata dell’esistenza. Transizioni avanzate e accelerate nella stessa produzione di conoscenza e di esperienza. Transizione e mutazione antropologica: questi sono i poli dell’equazione, insieme esistenziale, culturale e lavorativa, che oggi danno forma alla vita umana”.
Nell’insieme stiamo assistendo ad un passaggio epocale: da un modo di essere e di vita ad altro, da una condizione pre ad una post, da forme di appredimento e contesti uniformi e statici ad altri, molto più complessi, dove si maturano nuove forme sociali, concezioni e produzioni culturali. La parabola della rapidizzazione che la transizione di stato, ambiente e forma è diventata di fatto, permanente. Dalle certezze della tradizione ci sentiamo lanciati entro spazi poco noti, goveranti da leggi inedite. La sostenibilità di tale progettazione vitale dovrà essere in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri; dall’altro, l’agire per lo sviluppo sostenibile per una vita migliore dovrà essere garantito per tutti come la direzione tracciata da Stefano Zamagni: “Una società che scioglie dai viluppi che inibiscono la libertà di agire e dunque tesa a migliorare, cercare, creare e trasformare. Sviluppo è miglioramento è creazione, è trasformazione attiene ai fini dell’esistere, costringe a guardare oltre il singolo “processo” finito e apre ad uno sguardo sistemico”. Nasce spontanea la domanda come questa idea di sostenibilità e di sviluppo siano state accolte nella scuola, nelle classi, nell’organizzazione, nelle didattiche. Per capire la profondità di questi cambiamenti analizzeremo brevemente gli approcci di due grandi antropologi: il francese Marc Augè e il polacco Zygmunt Baumann.
Marc Augè introducendo il concetto di submodernità, indica alla base di queste grandi trasformazioni sociali un triplice cambiamento, o meglio, quelle che lui definisce “figure di eccesso”; il concetto di tempo e di spazio e dell’individuo stesso.
L’eccesso di tempo. A causa delle atrocicià delle guerre mondiali, dei totalitarismi, delle politiche di genocidio, il tempo ha perso il significato di essere luogo di memoria, di progettazione futura, a men che meno di essere testimone di un progresso morale. Per questi motivi Augè ritiene che non riusciamo più a trovare nel tempo un principio di identità. Scrive infatti: “La percezione del tempo è la percezione del presente di una mancanza che struttura il presente orientandolo verso il passato o verso l’avvenire”. In effetti si guarda ancora ai grandi temi del passato ritenuti antropologici ossia famiglia, vita privata, luoghi della memoria, ma queste ricerche sembra non esistano più. Guardare alla storia significa per l’autore, non cercare più una genesi, ma la decifrazione di ciò che siamo ora alla luce di ciò che non siamo più.
Altro aspetto che riguarda il tempo è la sua velocità, la velocità della storia, sostenendo che abbiamo appena il tempo di invecchiare un pò, che già il nostro passato è diventato storia. Il bisogno costante di dare senso a tutti gli avvenimenti del mondo presente genera questa situazione di submodernità.
L’eccesso dell’ego individuale. “L’individuo si considera un mondo a sè. Egli si propone di interpretare da sè e per sè tutte le informazioni che gli vengono date”. In altre parole ognuno fa quello che ritiene opportuno per se stesso, le singole storie individuali si sono esplicitamente implicate nella storia collettiva mostrando che l’identificazione del singolo con la storia collettiva è molto più debole e fluttuante. Il problema, specialmente per gli antropologi, è quello di riuscire a trovare un modo per ridefinire le condizioni della rappresentatività.
Ecco allora il significato di luoghi antropologici ossia spazi umani in cui possono essere letti i legami sociali e la storia collettiva o meglio i “non luoghi” strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio. Come afferma l’antropologo, una metamorfosi che riguarda anche la progettualità educativa.
Bauman analizza il tema della supermodernità partendo dai concetti di sicurezza e comunità. Una comunità di persone selezionate che condividono regole per la convivenza pacifica, fondamentalmente necessita che sia disposto a prendersene cura vigilando su di essa, proteggendola da fannulloni, vagabondi e criminali, ovvero da queli estranei che vengono messi fuori dal cancello. Questo aspetto denuncia un crescente senso di paura e di vittimismo che coinvolge una parte della popolazione e il necessario ricorso a mezzi di sorveglianza e vigilanza per ottemperare alla costante paura di sentirsi in pericolo o peggio perseguitati.
Davanti a questo scenario ci chiediamo dove è finito il senso della solidarietà comunitaria? Secondo Lèvi-Strauss, il più grande antropologo culturale dei nostri tempi, sono solo due le strategie impiegate per risolvere il problema della diversità altrui: o “sputarle fuori” o la “soppressione fisica”. Davanti alle costanti emerse sia da Augè che da Baumann nel definire i «non luoghi» spazi che non agevolano le relazioni e interazioni sociali, ci chiediamo come i giovani si pongono di fronte a questa criticità?
I nativi digitali vivono il mondo del web come una costante della loro vita. La realtà giovanile variegata e in continuo divenire è molto complessa e allora come riuscire a creare luoghi di energie ecosistemiche per lo sviluppo umano e dei talenti. Gli scenari di innovazione probabilmente richiedono una differente prospettiva entro cui intendere la scuola e l’educazione come luogo per l’apprendimento. La ricerca internazionale della relazione tra insegnamento e apprendimento mostra come apprendere non sia una attività puramente solitaria, ma una azione sociale e distribuita nel contesto e che la costruzione individuale della conoscenza avviene attraverso processi di interazione, negoziazione dei significati e cooperazione con gli altri.
La formazione dei talenti, diviene una interessante misura per attualizzare e rigenerare la finalità educativa della scuola nella transizione: sosteniamo la forza del talento come principio formativo unitario di questa fase. Un talento non è mai solo una dote naturale, ma si configura piuttosto come il risultao di un viaggio o meglio ancora, come quella postura individuale, che indica nei tratti, nel modo di esprimersi, nelle combinazioni personali, stime del fare e del sentire, l’insieme delle caratteristiche di intelligenza, di volontà, di cultura e di carattere che segnalano la nostra unicità.
Quindi non è mai una dote naturale solamente a determinare il successo formativo e/o personale ma piuttosto, una delicata interazione tra passione, attitudine, impegno, opportunità; il talento è insieme predisposizione e volontà, libertà di realizzarsi e responsabilità, ma soprattuto parlare di talento vuol dire parlare dei dispositivi con cui la società educa i suoi cittadini, stimola l’agire individuale e il benessere collettivo.