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“Locus of control”: come giustificare successi e insuccessi

L’individuo deve essere equilibrato co-costruttore di se stesso e dell’ambiente circostante, senza eccessiva colpevolizzazione o, al contrario, deresponsabilizzazione

Il “Locus of control” (traducibile come “luogo di controllo”) è stato introdotto, nel 1954, dallo psicologo statunitense Julian Bernard Rotter (autore del volume “Social learning and clinical psychology”), per intendere i due paradigmi di gestione e valutazione della vita e degli eventi. Si distingue in: interno, riferito a chi è convinto che gli avvenimenti, positivi o negativi, dipendano dai propri sforzi, dalle proprie competenze, ed esterno, per chi attribuisce i risultati al “destino”, a situazioni non controllabili come il caso e la fortuna. Rappresentano, per semplicità schematica, i due modi di intendere la vita e il conseguente approccio in tutte le esperienze; in genere si apprendono nei primi anni di vita, in famiglia, a scuola, con i pari.

Le teorie dell’apprendimento sociale imputano il diverso atteggiamento non a fattori genetici bensì alla cultura di riferimento e al condizionamento ambientale, a partire dalla famiglia e dall’atteggiamento genitoriale: volto, questo, più a valorizzare l’impegno e la responsabilità oppure, al contrario, ad assegnare valore alla fatalità, a pratiche disoneste ma ritenute efficaci (raccomandazioni, nepotismo). Per alcuni psicologi si tratta di una scelta di vita, netta e spesso definitiva; per altri di una divisione dai contorni più sfumati. Vissuto con estremizzazione, il locus of control interno si muove tra il rischio di sentirsi imbattibili (in caso di successo) o incapaci (per gli insuccessi), sviluppando dei sensi di colpa personali. Il locus esterno tende alla deresponsabilizzazione, a un minor senso del dovere personale, a trovare il colpevole nell’altro.

Il I gennaio 2005, nel Messaggio per la XXXVIII giornata mondiale della Pace, San Giovanni Paolo II precisò “Ho scelto come tema l’esortazione di San Paolo nella Lettera ai Romani: ‘Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male‘ (12, 21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male. […] La pace è un bene da promuovere con il bene […] È però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. […] Il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. Il male passa attraverso la libertà umana. […] A cercarne le componenti profonde, il male è, in definitiva, un tragico sottrarsi alle esigenze dell’amore. […] È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene aprendo loro l’orizzonte dell’umanesimo integrale e solidale, che la Chiesa indica e auspica. […] Tutti, in qualche modo, sono coinvolti nell’impegno per il bene comune, nella ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio. […] L’appartenenza alla famiglia umana conferisce a ogni persona una specie di cittadinanza mondiale, rendendola titolare di diritti e di doveri, essendo gli uomini uniti da una comunanza di origine e di supremo destino”. Per San Tommaso: “I doni della grazia si aggiungono alla natura in modo da non toglierla di mezzo, ma da perfezionarla”. I due costrutti, interno/esterno, si proiettano in ogni ambito della vita, personale, sociale, scolastico, professionale sentimentale.

Il professor Vincenzo Scoppa, autore del volume “Economia comportamentale”, pubblicato da “Il Mulino” nel settembre scorso, fornisce una nuova identità, rispetto a quella classica, dell’homo oeconomicus. Parte dell’estratto recita “abbandona le ipotesi della teoria economica standard di agenti pienamente razionali, egoisti, lungimiranti e dotati di grande forza di volontà. L’economia comportamentale usa concetti tratti dalla psicologia e dalla sociologia per rappresentare le decisioni di individui con limiti alla razionalità, che commettono errori sistematici, decidono sulla base di punti di riferimento e sono avversi alle perdite. Essi fanno ampio uso di euristiche, hanno difficoltà nel valutare le probabilità e formulano giudizi sbagliati. Inoltre danno eccessivo peso all’utilità corrente a scapito delle conseguenze future e sono temporalmente incoerenti, interessati all’equità e alla reciprocità, fanno confronti sociali e risentono del giudizio e della pressione degli altri”.

EngageMinds HUB, centro di ricerca italiano multidisciplinare, nello scorso mese di febbraio ha pubblicato l’XI edizione dell’Engagement Monitor (“Strumento di rilevazione continuativa e quantitativa su un campione rappresentativo della popolazione italiana per analizzarne i comportamenti in ambito sanitario, alimentare e di sostenibilità ambientale profilandoli dal punto di vista delle caratteristiche sociodemografiche, ma soprattutto delle motivazioni psicologiche che ne guidano le scelte”), visibile al link https://engagemindshub.com/wp-content/uploads/2024/02/W11-Consumer-Sentiment.pdf. Fra i diversi dati esposti, si legge “Gli italiani affermano che nel futuro proveranno a essere più consapevoli di se stessi: il 61% degli italiani sarà più conscio della propria responsabilità civica; il 57% sarà più consapevole del ruolo che ha la scienza nella società e il 54% proverà a essere maggiormente consapevole del proprio ruolo nella società. […] notiamo come rispetto a Ott_22 sia calata in modo significativo la percentuale di coloro che saranno più consci dell’importanza della salute (67%); al tempo stesso cresce la percentuale di coloro che l’anno prossimo proveranno a essere più ottimisti (39%). Cresce in modo costante la percentuale di coloro che sostengono che si impegneranno in azioni benefiche o di volontariato (40%), mentre cala la percentuale di coloro che saranno maggiormente consapevoli del ruolo della propria responsabilità civica (61%)”.

La prospettiva personale, come scorciatoia euristica è quella che, in genere, attribuisce, il verificarsi di un successo, alle proprie capacità; nell’ipotesi di insuccesso, le colpe si indirizzano verso altri o nei confronti di una notevole sfortuna. Il locus esterno determina un punto di vista indipendente dalle aspettative e dall’approvazione altrui, quello interno risente, invece, del giudizio degli altri. Chi accetta, passivamente, il ruolo del locus esterno, mina l’autostima e perde anche l’occasione di poter migliorare la propria condizione, di ridurre gli eventuali effetti negativi, oppure di ampliare quelli positivi.

Un’applicazione pratica, molto interessante, è quella sportiva, in cui gli obiettivi da centrare sono frutto di ampia preparazione, delle motivazioni e della capacità di concentrazione, limitando emozioni non proficue. Gli atleti con forte locus of control interno, considerano l’andamento finale di una prestazione (solo) come il risultato delle proprie abilità e, se necessario, da migliorare. Gli sportivi con forte locus of control esterno, tendono ad attribuire colpe ad altri aspetti: non pongono in discussione le proprie doti ma le vedono defraudate da sfortuna e ingiustizia; tra questi, molti finiscono, in seguito a insuccessi, per scoraggiarsi e rinunciare.

Altra applicazione tipica è quella scolastica. Nel locus of control interno, il risultato di un esame dipende dalla propria preparazione; per quello esterno è fortemente condizionato da professori severi, ingiusti. In caso di bocciatura, a esempio, un atteggiamento più equilibrato mira a riprovare e a ridiscutere le proprie strategie di studio, senza colpevolizzarsi o decolpevolizzarsi eccessivamente. Importante è l’approccio personale alla costruzione della propria realtà, un equilibrio che oscilla fra i due estremi dell’onnipotenza e dell’impotenza.

Considerarsi unici artefici del proprio mondo e degli eventi circostanti, può degenerare, infatti, in una sopravvalutazione delle proprie capacità, a considerarsi quasi invincibili, perfetti, esenti da critiche e da esami di coscienza, in una visione individualista che tende a porre il sé come centro dell’universo. In un’ottica di locus interno più equilibrato, la persona è consapevole che il proprio agire, responsabile e rispettoso dell’altro, diviene co-costruttivo della realtà.

L’altro estremo procede verso la deresponsabilizzazione, la comoda giustificazione per rimanere inerti, inermi, passivi e delegare le cause degli accadimenti alla fortuna/sfortuna, al destino, al caso, con buona pace dell’autostima. Tale rassegnazione, volontaria o involontaria, conduce a un pessimismo esistenziale, in cui coinvolgere anche il Creatore poiché ritenuto manchevole nel rapporto dare/avere in cui l’individuo ritiene di essere, sempre, in credito.

Rutter aveva ipotizzato, lungo i due estremi del locus, un continuum, nel quale si trovano a vivere molti individui. La subdola tendenza contemporanea è, però, strumentalmente divisiva. È erroneo questo classico dualismo, come la dicotomia insanabile che prospetta: attivi costruttori o passivi attendisti.

L’essere umano, dotato di coscienza, volontà e libero arbitrio, non deve polarizzarsi fra interventismo risolutivo a modifica, integrazione e sostituzione per l’imperfezione del creato né attendere passivamente, giustificando la propria accidia con interventi esterni.

Il discernimento scorre attraverso l’impegno e il valore del proprio operato (labora), abbinato alla consapevolezza di non essere i decisori del mondo bensì coloro che, nell’azione, attendono, in preghiera (ora), anche le grazie che vorranno essere concesse.

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