I dubbi espressi in merito agli effetti che la sua costruzione avrebbe potuto sortire erano giunti da voci autorevoli e competenti, non solo indigene. Eppure, il governo dell’Etiopia non ha rinunciato a portare avanti il grande progetto della diga Gilgel Gibe III: 243 metri di altezza per 630 di larghezza, che sbarrano il fiume Omo a circa metà del suo corso, in direzione del grande lago Turkana, al confine tra Kenya ed Etiopia ma quasi interamente posto nella nazione del Serengeti. Uno specchio d’acqua fondamentale per la sopravvivenza di quasi 300 mila presone, che da esso dipendono quasi interamente in quanto unica sostanziosa fonte d’acqua in un’area in prevalenza secca. Un vero e proprio tesoro per la popolazione locale il quale, tuttavia, rischia seriamente di restare al centro di un disastro ecologico, che potrebbe realmente inficiare sul tenore di vita di un’intera comunità.
La Diga e il Turkana
Stando a quanto riferito dall’ong Human rights watch, infatti, lo sbarramento dell’Omo con la Gibe III (terza opera pubblica di un progetto che, in tutto, prevede 5 diverse dighe) ha sensibilmente ridotto, come peraltro abbondantemente annunciato, il livello delle acque del Turkana. Il rapporto dell’organizzazione parla addirittura di un abbassamento di 1,5 metri, con un considerevole avanzamento della fascia costiera, in particolare nella zona del Golfo di Ferguson. Inoltre – e anche questa era un’eventualità a più riprese denunciata, in particolare dall’ong “Survival” – l’attivazione della diga (collegata alla centrale idroelettrica più grande dell’Africa) ha praticamente azzerato le esondazioni stagionali nella bassa valle dell’Omo, privando gli agricoltori della zona del fondamentale apporto del fiume alle coltivazioni (principale fonte di sostentamento diretta per oltre 100 mila persone). Decisamente esemplificative, le immagini satellitari allegate dall’ong al documento, nelle quali risulta ben evidente la regressione delle acque del Turkana, in modo alquanto progressivo dal 2014 a oggi.
I rischi della popolazione
Le numerose proteste messe in atto dalle ong prima, durante e dopo la realizzazione dell’opera, non hanno tuttavia impedito al governo etiope di investire pesantemente in quest’opera (almeno 1,8 miliardi di dollari) di fatto sorvolando sulle reticenze delle popolazioni locali (pur dirette interessate in quanto quasi interamente basanti la loro economia sulle risorse ittiche del lago) in virtù della cospicua produzione di energia elettrica, forte dei circa 1870 MW di potenza generata dalla diga in uscita. In sostanza, ciò che è stato riscontrato è un atteggiamento di generale superficialità nel considerare l’impatto dell’opera sugli ecosistemi della valle, anteponendo i lavori di costruzione alla valutazione dei rischi sull’andamento dell’economia di sussistenza locale: il livellamento della superficie del lago, oltre a inficiare notevolmente sulla pesca, potrebbe azzerarla quasi del tutto (in un arco temporale non troppo consistente), come denunciato in un rapporto della stessa Hrw stilato lo scorso gennaio: il rischio, in pratica, è che si possa verificare un disastro ambientale simile a quello del Lago d’Aral: “Le proiezioni sull’abbassamento del livello delle acque – ha spiegato Felix Horne, capo servizio Hrw per l’Africa -, pur ordinariamente rifiutate dal governo dell’Etiopia, si stanno avverando… Questo potrebbe essere un’avvisaglia su cosa potrebbe succedere qualora si continuasse a ignorare le esigenze delle comunità della valle nella fretta di sviluppare risorse”.