Sin dalla giovane età Antonino De Masi segue il padre Giuseppe nell’attività imprenditoriale da quest’ultimo fondata nel campo della meccanizzazione agricola e le vicende che vedono la famiglia De Masi agli onori della cronaca per il suo impegno contro la criminalità.
Un uomo dalla cultura umanistica e dai forti valori cristiani. Diverse esperienze professionali internazionali lo hanno molto formato e, dopo aver conseguito il diploma in discipline economiche, ha avviato diverse nuove attività imprenditoriali in un’area geografica, come quella della Piana di Gioia Tauro. Vicende che hanno profondamente condizionato la crescita e gli obbiettivi della sua vita professionale, dandogli una carica sempre più forte per seguire i principi della legalità.
Da otto anni è sotto scorta ed Interris.it lo ha raggiunto telefonicamente per ascoltare la sua testimonianza. Un racconto fatto di principi e valori, una vita dedita alla famiglia e al sacrificio per mantenere sempre alta la dignità.
La prima fase
“Nel 2001 ho costruito degli stabilimenti industriali su Gioia Tauro. Questo è il primo pezzo del puzzle. In quegli anni, durante la costruzione di questi stabilimenti industriali importanti, all’azienda che conduceva questi lavori sono state fatte delle estorsioni. I proprietari me ne hanno parlato ed io li ho accompagnati a denunciare tutto quello che era avvenuto.
Gli estorsori sono stati arrestati con i soldi in mano, ma il sistema del territorio si è rivoltato contro di me perché sono stato visto come il responsabile dell’arresto dei padri di famiglia al di là del fatto che quei padri di famiglia avessero il pacco dell’estorsione in mano.
Da quel momento la macchina burocratica amministrativa si mise di traverso. Io avevo fatto investimenti importanti e le banche dall’oggi al domani me li eliminarono. Chiesi conto di ciò e scoprii che su delle linee di credito da 12milioni di euro mi avevano applicato 6milioni di interessi. Mi attivai prima con delle lettere e poi con degli atti giudiziali per chiedere spiegazioni e tutto ciò portò a una sentenza definitiva della Cassazione dove si è sancito che io sono stato usurato”.
La seconda fase
“Il secondo pezzo del puzzle risale al 2013 quando spararono 44 colpi di kalashnikov al portone della mia azienda mettendomi anche tre proiettili davanti alla porta d’ingresso. Era il 13 aprile 2013.
Tenga in considerazione che quando nel 2001/2002 iniziò questa storia, non era ancora scoppiato neanche il primo scandalo della Parmalat. A quei tempi parlare della banche era come bestemmiare perché erano viste come delle strutture intoccabili.
All’epoca dall’analisi delle carte però si capì come venivano manomessi i conti. In una di quelle sentenze si è detto che l’errore fosse stato compiuto dal pc e l’errore delle banche si giustificava con un errore di calcolo.
C’è qualcosa che le ha fatto dubitare della buona fede della banca?
“Questa storia è stata compiuta a ridosso di un’estorsione. Io non so perché, ma so per certo che le banche sono delle strutture serie, che però a volte vengono governate da uomini che hanno giurato fedeltà non alla banca, ma ad altro tipo di potere. Io ad oggi non ho le prove, le cose le ho denunciate e sono stati aperti altre tipologie di procedimenti civili e penali.
Ad ogni modo l’innesco della mia sentenza bancaria nasce contestualmente all’estorsione subita. Inoltre dagli atti processuali emerge che un funzionario di quella banca mi ha chiamato: ‘guardi De Masi stia attento perché abbiamo avuto ordine di distruggerla’. Queste furono le parole confermate anche alla Procura di Reggio Calabria. Inoltre quando il funzionario interferì con la magistratura, risposte che le politiche creditizie spettavano a lui e non alla magistratura. Cosa voglia dire ciò non lo so, fatto sta che ho messo tutto a verbale in alcune deposizioni. Le ho scritte, poi non hanno avuto alcun tipo di risvolto, ma sono fatti che sono accaduti”.
La vita oggi di De Masi
“In questo momento io credo di essere uno dei pochi imprenditori in un paese occidentale che ha l’azienda presidiata dall’esercito. C’è un chek point militare all’ingresso. Lei, quando viene da me, deve passare un chek point militare. In più vengo chiamato come testimone di giustizia, ma io mi definisco un cittadino che ha fatto e che fa il suo dovere”.
Com’è la sua vita oggi? Cosa significa vivere sotto scorta?
“C’è una precondizione che va utilizzata senza la quale non c’è una spiegazione al come io e la mia famiglia stiamo conducendo la vita. Oggi come oggi la vita di tutti noi si muove su due binari uno il materialismo dell’avere dei soldi, il materialismo del successo. L’altro, invece, è il binario della razionalità, dell’essere figli di una concretezza, di una logica di una ragione e sono elementi che una persona che vive una realtà come la mia avrebbe dovuto fare scelte diverse.
Sono otto anni che vivo sotto scorta costringendo anche la mia famiglia a lasciare la propria terra ed andare oltre, perché voglio lottare per i miei valori e per i miei principi. Voglio continuare a stare in Calabria a fare impresa. Non ho attuato strategie di logica perché la logica sarebbe quella di aderire ad un programma di protezione oppure di trasferire la mia famiglia fuori da qui.
Il materialismo è anche scendere a compromessi con i criminali come dicono molti miei colleghi, ma io non ho accettato. “Non puoi vivere così – mi dicono – adeguati, paga quello che devi pagare così puoi condurre una vita come quella degli altri. In questo modo metterei sotto i piedi valori e dall’altra parte farei scelte razionali.
Poi ci sono quei valori che fanno parte della mia vita, della mia libertà e della mia fede e da qui la consapevolezza di prendermi l’onore e la responsabilità di dare un futuro ai miei figli e alla mia terra.
Voglio lottare per quella libertà che oggi ho perso perché io vivo condizioni in cui mi sono venuti a mancare i miei diritti fondamentali, farmi una passeggiata, andare a mangiare una pizza con mia moglie ed i miei figli in libertà e tranquillità.
Io accetto queste privazioni perché davanti ho un bene maggiore che sono il bene della mia dignità di uomo libero e combatterò questa battaglia fino alla fine dei miei giorni. Lei sa bene cosa vuol dire mettersi contro le cosche criminali, vuol dire mettere a repentaglio anche la propria vita, ma alla fine penso che se anche dovessi pagarne il prezzo, il mio sacrificio deve servire anche ai miei figli e alle future generazioni per cambiare le cose”.
In più interviste si è definito “un morto che cammina” che quasi potesse pagare lo scotto della sua battaglia per la legalità, è mai riuscito a pensare di mollare tutto?
“Tempo fa ho letto le intercettazioni tratte dalla conversazione in un carcere tra un boss e la moglie. In quelle intercettazioni il boss ha dato indicazioni di ammazzarmi, indicando anche il nome del killer che avrebbe dovuto farlo.
Di tutte queste situazioni sono andato a parlarne con il procuratore della repubblica e gli ho detto che ci sono due strade una che mi prosti ai piedi di questa gente, elemosinando il diritto alla vita. La seconda opzione è che se vogliono la guerra facciamo la guerra.
Io ricordo che subito dopo aver letto queste cose andai in un’intervista al tg1 che feci il giorno di Natale del 2017 in cui dissi che in questa intercettazione parlavano di me come se io fossi l’autore delle loro prigioni e delle loro sofferenze.
Mi hanno chiamato tragediatore ma in realtà, come dichiarai durante l’intervista, loro stanno pagando le conseguenze del loro vivere, del loro aver scelto di fare i delinquenti e non certo per le mie denunce perché io ho scelto di fare un altro mestiere. Loro hanno scelto di fare i criminali.
Io sono convinto che la logica della razionalità delle menti distorte dei criminali sta nel controllo del territorio e nell’imporre a quel territorio le loro scelte, la loro tracotanza, il loro essere barbari assassini.
Per questo sono certo che nella messaggistica criminale loro a me dovranno dare un segnale, perché toccando me significherebbe normalizzare tutti gli altri, ma questo non mi porta a vivere in un modo diverso quello che io sto vivendo. Mi porta sicuramente a essere attento, ad avere anche paura ed essere consapevole che sulle mie spalle c’è la scelta delle future generazioni perché girarmi dall’altra parte significherebbe andare ad inginocchiarmi davanti il vitello d’oro, davanti a satana ed io non mi inginocchierò mai davanti a questa gente”.
Come sta cambiando il modo di fare criminalità?
“Oggi c’è una costante rispetto a prima che è la presenza dello stato. Oggi le istituzioni tutte, la polizia, la guardia di finanza, la magistratura, sono presenti sul territorio, quindi c’è un ipotetico scenario dove da una parte c’è lo stato, il bene che combatte il male rappresentato dall’antistato.
C’è però la società civile che non ha avuto anche il coraggio di scegliere da che parte stare perché spesso è andata a fare il tifo per i vincitori, stato o antistato.
Questi criminali sanno che ammazzare qualcuno oggi porterà immediatamente una reazione dello stato e quindi ci pensano due volte. Il loro tentativo per distruggere qualcuno non è più quello di ucciderti con il piombo ma quello di isolarti, farti sentire come se tu fossi un appestato e qui finisce il ruolo della società civile.
Anche la Chiesa che dovrebbe essere meno Don Abbondio, più presente in questo territorio con messaggi forte, cosa che stava già accadendo prima anche con i messaggi di Karol Wojtilya e ora di Papa Francesco. Oggi la società civile è stata spettatrice passiva tra stato e antistato, con il demonio che vuole vederci prostrare ai suoi piedi”.
Si può sperare ancora nella legalità?
“La legalità passa da un passaggio fondamentale che è quello del risvegliare le coscienze. Dobbiamo riappropiarci dei valori, perché finché il nostro vivere quotidiano sarà legato al materialismo, continueremo ad essere schiavi di Satana.
Noi ci siamo venduti l’anima al diavolo e abbiamo lasciato il nostro percorso di valori e di principi. Abbiamo aperto le braccia al denaro, figlio del male, dei compromessi con la nostra vita ed è da qui che nasce la corruzione.
28 anni fa sono morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si diceva “mai più stragi come queste” eppure le cosche continuano a vivere e a rigenerarsi…perché?
“Il 23 dicembre del 1990, mio padre avevo 58 anni. Quell’anno ci misero l’ennesima bomba alle 14.30 del pomeriggio. Ci distrussero la casa. Mio padre il 24 dicembre del 1990 va a Rai due e in un’intervista di 10 minuti alle 19.45 dice ‘io chiudo l’azienda per mafia perché non ce la faccio più’. Siamo stati la prima azienda in Italia ad aver chiuso per mafia.
Io dopo 30 anni, rivedendo lo stesso film, con la stessa cosca criminale, mi sono promesso che questa vicenda non posso lasciarla così, non posso lasciare ai miei figli la stessa eredità che ho avuto io.
All’epoca mio padre chiuse l’azienda per paura che potessero fare del male ai suoi figli. Ad oggi io sto vivendo la stessa situazione vissuta da mio padre e non posso lasciare loro la possibilità che tra vent’anni i figli di questi boss continueranno a fare ciò che hanno fatto a me e mio padre”.
Come si sconfigge la legalità se non c’è un ruolo attivo della società civile?
Questa deve capire che l’omertà sta distruggendo la speranza dei nostri figli. O tutti capiscono che questa quotidianità sta facendo di fatto terra bruciata, desertificando le speranze delle future generazioni oppure non si capirà che ci stanno prendendo in giro. Certamente lo stato e le istituzioni possono certamente fare tanto, ma non possiamo assistere in silenzio. La società civile gioisce anche quando il male segna un goal e non è possibile. La Chiesa deve ancora forzare la mano, il cristiano gioca e agisce per il bene e per l’amore verso il prossimo altrimenti non c’è storia”.