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“Lettera a un amico ebreo”: l’amicizia vince su tutto

“Lettera a un amico ebreo” era la storia di due amici, un cattolico e un ebreo, che si erano ritrovati vivi ventisei anni dopo che la Seconda Guerra mondiale li aveva divisi. Quel libro, perciò, raccontando una storia così, voleva essere un sostegno al dialogo cattolici-ebrei, dopo che il Concilio Vaticano II aveva cancellato l’accusa di deicidio.

Ed era anche, quel libro, implicitamente ma nettamente, un durissimo attacco all’antisemitismo: un antisemitismo che stava rinascendo, sempre più violento, sempre più intollerante. Era il novembre del 1965, in Vaticano si stava concludendo il Concilio.

L’arcivescovo Wojtyla ricevette inaspettatamente la telefonata di Jerzy Kluger, uno dei suoi amici ebrei, e dei più cari, con il quale a Wadowice aveva compiuto l’intero percorso scolastico, dalla prima elementare alla maturità ginnasiale. Jerzy era stato deportato in Siberia, poi aveva combattuto a Montecassino, nell’armata del generale Anders. Ma, finita la guerra, non era più voluto tornare in Polonia.

Come tornare là dove la mamma, la sorella, Tesia, e la vecchia nonna, erano state portate via dai nazisti, per essere uccise nelle camere a gas di Belsen e di Auschwitz? Eppure, cinquant’anni dopo, Kluger ci tornò. Tornò a Wadowice, dov’era nato, per l’inaugurazione di una lapide commemorativa in onore degli ebrei della regione, sterminati dai nazisti. A dargli la spinta decisiva, per superare l’angoscia che si portava dentro, era stata una lettera inviatagli da Giovanni Paolo II: “Ricordo molto bene la sinagoga di Wadowice…”. Come poteva dire di no, Jerzy Kluger, all’amico cattolico, che, primo Papa nella storia, era entrato in una sinagoga, e a Gerusalemme, nel Muro del Pianto, aveva lasciato un biglietto, con la richiesta di perdono ai “Fratelli maggiori” da parte della Chiesa di Roma?

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