Era un martedì il giorno in cui la civiltà occidentale ebbe il suo inaspettato giro di boa. Fine estate, aria ancora calda, un cielo azzurro su Manhattan. Quello che di lì a poco lo avrebbe oscurato non fu solo il fumo nero esalato dagli squarci delle Twin Towers ma una nube di odio, letale quanto la follia dell'uomo. Un prima e un dopo. Perché il giorno seguente si era già entrati in un'altra era. Perché niente è stato più come prima dopo l'11 settembre, anno 2001. Né probabilmente lo sarà mai. A 18 anni si diventa maggiorenni, si inizia a sviluppare una diversa percezione delle cose, ad attraversare a piccoli passi il varco tra i ricordi dell'infanzia e l'ingresso nell'età adulta. Ma c'è quasi un riflesso incondizionato: osservare un 18enne di oggi equivale a tirar fuori il suo anno di nascita, quello che a sua insaputa ha cambiato tutto, che ha segnato il passaggio dall'era della globalizzazione, così come l'abbiamo conosciuta, a quella del sospetto, del rinnovato timore per un'improvvisa estensione delle frontiere della civiltà. Ora l'11 settembre è storia ma solo in apparenza: l'onda lunga degli attentati terroristici su Manhattan si è tutt'altro che esaurita e non solo perché il conto definitivo delle vittime, a quasi vent'anni di distanza, è ancora solamente provvisorio.
L'impotenza del mondo
Storia appunto. Quattro voli civili dirottati quella mattina, da un nucleo di 19 attentatori affiliati all'organizzazione terroristica di al-Qaeda, sotto la regia del leader Osama bin Laden. Tre di questi finiranno la loro corsa contro obiettivi strategici, cruciali, colpendo dritto al cuore degli Stati Uniti d'America: due sulle Torri Gemelle, provocando una carneficina; un altro sul Pentagono. Un quarto volo, lo United Airlines 93, alla destinazione decisa dai dirottatori, non ci arriverà mai, schiantandosi nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania, dopo un tentativo dei passeggeri di riprenderne il controllo. Quale fosse l'obiettivo dei terroristi resterà un mistero, forse uno dei luoghi simbolo di Washington. A New York, intanto, si è scatenato l'inferno: le tv di tutto il mondo si collegano su Manhattan, il presidente Bush dirama ordini dall'aereo presidenziali dichiarando lo stato di emergenza per il Paese, per le strade di Ground Zero c'è chi fugge, chi si dispera, chi osserva sgomento la facciata sfregiata e fumante delle due torri. Da quelle fenditure non escono che fuoco e fiamme. Più in alto, però, qualcuno si affaccia: da sotto sono dei puntini difficilmente distinguibili ma dimostrano che al di sopra dei punti d'impatto ci sono centinaia e centinaia di persone. Nessuno di loro si salverà, chi ucciso dalle fiamme, chi dall'implosione dei due grattacieli. Qualcuno di loro quel crollo non lo aspetta, preferendo gettarsi nel vuoto. Il mondo osserva impotente, faccia a faccia, forse per la prima volta, con il vero volto del male. E con il naufragio di tutte le proprie certezze.
Un dolore universale
Non sarebbe stato più niente come prima. Perché il dolore dell'umanità intera non sarebbe riuscito ad arginare la dirompente reazione a catena degli eventi. Il mondo cambiò il suo volto quasi completamente. Un prima e un dopo, appunto. Gli Stati Uniti si scoprono improvvisamente vulnerabili, reagiscono, il Medio Oriente, focolaio della follia di quel martedì, torna a essere teatro di conflitti: l'America dichiara guerra al terrorismo, l'US Army invade l'Afghanistan e rovescia il governo talebano. Poi le voci sul coinvolgimento iracheno porteranno all'apertura di un altro fronte di lotta, contro obiettivi che con gli anni diventeranno sempre più indefinibili. Oggi a Manhattan ci sono due monumenti a ricordare chi, di quell'attacco, rimase vittima innocente. Ma è come se, in fondo, la nube letale di Ground Zero aleggiasse ancora, pronta a soffocare il pianto di chi ancora si chiede come tanto male sia stato possibile.
Diciotto anni dopo: cosa è cambiato?
A un mese dall'attentato che ha sepolto Manhattan sotto una coltre di polvere e fumo, l'editoriale della rivista di geopolitica Limes parlava dell'attacco alle Torri Gemelle come di una guerra asimmetrica, “non solo nel divario dei mezzi, ma nel confronto fra la nostra logica di potenza, baluardo di valori rigorosamente terreni, e il 'santo terrore' à la Bin Laden”. Negli anni quell'asimmetria sopraccittata si è riflessa nell'altalenante guerra condotta degli Stati Uniti in Medio-Oriente. All'invasione dell'Iraq e alla cosiddetta “guerra al terrorismo” nei confronti di un Afghanistan talebano, reo di aver coperto i terroristi, si sono susseguiti momenti in cui il vigore statunitense è rimasto fiaccato. A pesare, il numero delle vittime scaturite dalla guerra al terrore: centinaia di migliaia secondo lo studio pubblicato dall'Istituto Watson per gli affari internazionali e pubblici della Brown University (almeno 500.000 decessi, fra civili, miliziani, forze militari statunitensi e alleate). La ripresa della guerra a stelle e strisce in Afghanistan si deve a Barack Obama, che nel 2009 lanciò Colpo di Spada, “la più grande operazione aerea dei tempi del Vietnam” ricorda Il Corriere della Sera, condotta nella valle di Helmand per allontanare i talebani dai villaggi e consolidare la presenza delle forze della coalizione a trazione Usa. Nonostante un vasto dispiegamento di forze, oggi i talebani controllano ancora il 20% del Paese e la missione della Nato Sostegno risoluto – con cui 41 Paesi supportano le forze di sicurezza afghane – non riesce a garantire la sicurezza sperata. Intanto, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, rimane fedele alla sua promessa: ritirare le truppe Usa dal Medio Oriente attraverso un vertice con i leader dei talebani in cambio di un loro effettivo impegno nella lotta ad al-Qaeda. La fine di un capitolo tragico in vista delle elezioni del 2020 o il desiderio di pace che una guerra cronicizzata non può assicurare? Non ci è dato saperlo, ma è certo che, a due giorni dalle commemorazioni dell'attacco alle Twin Tower, il vertice salta. Nella giornata di ieri, un tweet del presidente ha reso note le dimissioni del suo consigliere più stretto, John Bolton, il più critico nei confronti dell'apertura di Trump. Molti cittadini statunitensi vedono quest'atteggiamento come una resa di Washington, altri ne acclamano il buon esito. Non è noto come si possa trovare un accordo, tra “false partenze” e minacce da entrambi gli schieramenti. Il cammino, iniziato a Doha fra l'inviato Usa, Zalmay Khalilzad e l'omologo talebano, Abdul Ghani Baradar, è un elenco di cifre: 5.400 soldati americani prossimi al ritiro, mentre almeno altrettanti alleati Nato – fra cui 700 italiani – lascerebbero l'Afghanistan gradualmente. Numeri che non tengono conto delle perdite che la “guerra del terrore” ha provocato in tutti questi anni.
Gad Lerner: “Gli Usa via dal Medio-Oriente? Un castello di carta”
Complici le sue origini libanesi e l'approccio da “reporter di frontiera”, il giornalista Gad Lerner ha sempre coltivato l'interesse per le 'crociate': un fenomeno che, pur nelle sue svariate declinazioni, è foriero di quell'integralismo cieco che ha provocato eventi tragici come l'11 settembre. A distanza di diciotto anni, nel dramma persistente dei conflitti a matrice ideologica, l'attacco alle Torri Gemelle ha rivelato le contraddizioni del mondo cosiddetto “civilizzato”: “È stato uno schiaffo in faccia – ha dichiarato a In Terris – contro l'impostazione colonialista del nostro Occidente”.
Dott. Lerner, si ricorda dov'era l'11 settembre del 2001?
“Tutti noi ce lo ricordiamo perché è uno di quei momenti sconvolgenti che risultano impressi nella nostra memoria. Nello specifico, mi trovavo in una sede milanese della Telecom dove si stava perfezionando il passaggio di proprietà della rete televisiva che avevamo appena fondato, La7. All'epoca, ero il direttore del telegiornale e in quel passaggio di proprietà c'erano delle scelte operative importanti da definire. La riunione fu interrotta da quelle immagini sconvolgenti di New York e io feci in tempo a prendere un aereo per tornare a Roma in redazione ed avvertire mia moglie e mio figlio di non prendere aerei”.
Lei ha affermato che, dopo l'11 settembre, contrariamente a quanto preconizzavano i terroristi di al-Qaeda, è accaduto che nei popoli arabi s'è risvegliata un'aspirazione alla libertà, poi confluita nelle primavere arabe…
“Le primavere arabe cominciano ben 10 anni dopo, dal dicembre 2010 in Tunisia, con il rovesciamento della dittatura di Ben Ali, e proseguono con le vittorie che conseguono in Egitto, mentre è più controversa la questione della Siria. Diversamente da quanto era necessario, non è stato sostenuto quel movimento di liberazione che ha avuto per protagonista una nuova figura statale, vale a dire il 'giovane urbanizzato' che ha consuetudine con il mondo Occidentale, vuoi per esperienza di migrazione, vuoi per interconnessione attraverso i mezzi digitali. Questa figura è stata mandata al massacro, ha subito la repressione sanguinosa dei regimi, l'allarme dei potenti del mondo arabo, vale a dire le tetromonarchie illiberali del Golfo, che hanno guardato con timore quei Paesi densamente popolati – come l'Egitto o l'Iran sciita – sperimentare transizioni democratiche. Tutto questo è mancato e c'è stata restaurazione, anche una sorta di complicità occidentale perché i cosiddetti raïs, cioè presidenti mascherati da dittatori, ancorati al potere per decenni, ci facevano comodo, era facile corromperli e stabilire con loro politiche di strozzatura e contenimento dei fenomeni migratori. Basti pensare che in Italia, ancora oggi, c'è chi rimpiange il colonnello Gheddafi, al potere più di quarant'anni”.
Di recente è saltato il vertice fra la Casa Bianca e i leader dei Talebani per porre fine alla guerra in Afghanistan. Secondo lei, il presidente Usa, Donald Trump, riuscirà nell'intento? Ci sarà, in sostanza, una Camp David 2?
“Ai suoi elettori Trump ha promesso il disimpegno militare, costosissimo in termini economici oltre che di vite umane, in Afghanistan, dove la guerra è cronicizzata, così come aveva promesso il disimpegno in Iraq. Per questo, la sua architettura degli equilibri medio-orientali prevede l'amicizia fra opposti, cioè fra lo stato d'Israele, baluardo occidentale ed ebraico, e l'Arabia Saudita, custode de La Mecca e, quindi, dell'ortodossia sunnita. È un progetto che in parte si sta verificando, ma mi sembra molto fragile. Il lavoro che Trump fa per dare stabilità al Medio Oriente è molto fragile”.
Lei è autore di un libro sulle Crociate e nel '99 ha anche percorso alcune delle storiche tappe delle crociate. Ci sono oggi “crociate” che invoca, invece, il nostro Occidente?
“Il fatto singolare è che oggi a invocare 'crociate' sono tutti, tranne coloro che novecento anni fa le benedissero e le proclamarono, cioè i Pontefici di Roma. Se c'è qualcuno che oggi non adoprerebbe più la parola 'crociata' è Papa Francesco e, prima di lui, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, perché guardarono con orrore a un ritorno delle guerre di religione. Anche nei momenti più difficili, dopo l'11 settembre 2001, tennero l'impegno per il dialogo interreligioso come una delle loro assolute priorità. Oggi le 'crociate' le vogliono i fanatici, i miscredenti che brandiscono la religione come se fosse un'armatura”.
L'attacco al locale parigino Bataclan ha mostrato come in Europa, quindi anche in Italia, nessuno possa dirsi immune dagli attacchi di fondamentalisti islamici. C'è, secondo lei, il rischio di un altro 11 settembre?
“Il potere della rete internazionale del terrorismo islamico sembra molto indebolita. Da tempo, il cosiddetto jihadismo s'affida alle azioni criminali e disperate dei 'lupi solitari', perché sono venute meno le fonti di finanziamento ed armamento di cui disponevano negli anni Novanta del secolo scorso. Naturalmente, l'affinarsi delle tecnologie fa sì che anche pochi pazzi criminali possano creare eventi catastrofici senza la prevenzione riesca ad impedirlo. Non vedo, però, oggi uno stato islamico che abbia l'interesse a scatenare tutto questo”.
Perché il ricordo dell'11 settembre riguarda anche noi?
“Perché quell'evento tragico e luttuoso è stato anche uno schiaffo in faccia. L'attentato a New York ci ha ricordato come l'esportazione di tecnologia ed armamenti in regioni del Pianeta che ci servivano solo per l'approvvigionamento energetico, ma nelle quali ci faceva comodo permanessero dittature fondate sull'integralismo religioso, tutto questo poteva ritorcersi contro di noi. Il modello a matrice colonialista dell'Occidente, che usa e sfrutta le risorse di Paesi lontani affidandone il governo a propri complici, nel 2001 s'è ritorto contro chi ne aveva beneficiato fino ad allora. Trovare un nuovo equilibrio mondiale implica il dialogo interreligioso, la fine degli integralismi e l'avanzata della democrazia anche in Paesi che abbiamo tenuto sotto il nostro tallone”.