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Sentenze creative, una questione antropologica

Oggi assistiamo alla “giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti ‘nuovi diritti’, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”. La parole che Papa Francesco ha pronunciato all’udienza ai partecipanti al V Congresso del Centro Studi Rosario Livatino, suonano come un chiarissimo monito contro la deriva della giurisprudenza creativa che ha ormai trasformato ogni desiderio in diritto. Il Papa ha quindi attinto alle riflessioni di Rosario Livatino – il giovane giudice siciliano ucciso dalla mafia ad Agrigento nel 1990 – per quanto riguarda il ruolo del magistrato nella società: “Egli altro non è che un dipendente dello Stato al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni”. Al contrario, come aveva notato già Livatino, il Papa ha sottolineato che “si è venuta sempre più affermando una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, secondo la quale quest’ultimo, ‘pur rimanendo identica la lettera della norma, possa utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente”. 

E ancora Papa Francesco si è soffermato sulla grandezza dell’esempio di Livatino che “ha testimoniato quanto la virtù naturale della giustizia esiga di essere esercitata con sapienza e con umiltà, avendo sempre presente la dignità trascendente dell’uomo, che rimanda alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella ‘bussola’ inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato”. “Considerazioni – ha evidenziato il Papa – che sembrano distanti dalle sentenze che, in tema di diritto alla vita, vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici… Pronunce per le quali – ha proseguito il Pontefice – l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato”. Il Santo Padre è stato ancora più esplicito quando ha affermato che il “diritto di morire” che alcune pronunce giurisprudenziali “inventano” è “privo di qualsiasi fondamento giuridico”. Francesco ha ripreso poi un'altra osservazione lasciata da Rosario Livatino dopo che un parlamentare laico del tempo gli aveva espresso delle preoccupazioni in merito al “diritto” all’eutanasia: “Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire”. Il discorso pronunciato da Francesco nell’udienza a noi dedicata è “un grande conforto” e “un incoraggiamento a proseguire in questa direzione” ha detto ad In Terris Alfredo Mantovano, vice-presidente del Centro Studi Rosario Livatino.

Il Centro studi si è costituito nel 2015, a 25 anni dal sacrificio del giudice siciliano, e riunisce gruppo di giuristi – magistrati, avvocati, docenti universitari, notai – che traendo esempio dal magistrato agrigentino, del quale è in corso il processo di beatificazione, studia temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia e la libertà religiosa in un’ottica di coerenza col diritto naturale. 

 

Mantovano come avete accolto il discorso del Santo Padre?
“Il Papa non poteva usare parole migliori per confermare tutto il lavoro di sensibilizzazione fatto dal Centro Livatino in questi quattro anni sul tema del diritto alla vita. Il suo è stato un discorso quadro ma soprattutto ha sottolineato che il ruolo del giudice come qualcuno a cui non spetta creare la norma. Il richiamo continuo che ha fatto agli scritti di Livatino per noi è stato motivo di grande orgoglio”.

Le parole del Papa sono rivolte a tutta la magistratura, è possibile fermare questa deriva che trasforma ogni desiderio in diritto?
“Il nostro congresso a Roma avviene in parallelo con quello dell’Anm a Genova, sarebbe bello se anche lì si riflettesse su quello che ha detto il Papa, il quale viene sempre citato a sproposito sui temi più vari ma ignorato quando parla di temi antropologici e diritto naturale. Il Papa riafferma con chiarezza il diritto naturale come base del diritto positivo”

Cosa di cela dietro le sentenze creative di alcuni giudici?
“C’è una volontà teorizzata da anni che sostiene che i nuovi diritti non possono essere affermati per legge, perché il parlamento è luogo di scontro, ma attraverso la via giurisprudenziale. Basta guardare la legge sulle Dat (dichiarazione anticipata di trattamento ndr), non è altro che la trasposizione dei passaggi della sentenza della cassazione sul caso Englaro”.

I giudici cattolici possono offrire un contributo importante con la loro sensibilità?
“Qui non è una questione di religione ma di antropologia. E’ questione di umiltà del giudice che non deve imporre la propria ideologia ma deve fare una giurisprudenza coerente con le norme di riferimento. Poi certamente ci vorrebbe uno sforzo formativo per sostenere i magistrati che hanno un’impostazione ideale vicina al sentire cattolico, speriamo che questi possano emergere così come si auspica il sorgere di politici cattolici”.

Non solo vita, ormai le sentenze creative hanno toccato tutti gli abiti dell’antropologia…
“Certo, dalla demolizione della Legge 40 sulla procreazione assistita, che ha portato all’eterologa e alla negazione del diritto all’identità, all’imposizione di trascrizioni all’anagrafe di due genitori della stesso sesso che hanno ottenuto un bambino all’estero tramite utero in affitto. La cancellazione di padre e madre e la step-child sono invenzioni della magistratura”.

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