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Fare giustizia, non giustiziare

Pensavo che Abu Grahib fosse lontana nello spazio e nel tempo. L’indimenticabile struttura penitenziaria a 32 chilometri da Baghdad non immaginavo avesse una succursale a Roma. L’incancellabile immagine del detenuto incappucciato e collegato con fili di rame a stimolatori elettrici, simbolo di umiliazioni e torture sui reclusi iracheni, ritenevo avesse indotto a comportamenti “umani” chi può disporre della vita altrui. Ho ancora negli occhi lo speciale di “60 minutes”, il rotocalco televisivo di CBS News, in cui si scopriva il trattamento riservato agli “ospiti” del comprensorio carcerario. La foto di uno dei presunti protagonisti americani del brutale assassinio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega mi ha impressionato: la benda sugli occhi e le manette dietro la schiena sono la versione “basic” delle atrocità gratuite che qualche anno fa scandalizzarono il mondo. Crudeltà e sevizie non possono essere il capolinea della rabbia animale di chi rappresenta un “potere” ritenuto ferito o non rispettato. Indossare un’uniforme (l’ho fatto per 37 anni e non mi sono mancate certo le mortificazioni) significa controllare le proprie emozioni e ricordare che “la legge è uguale per tutti” e, anche e soprattutto, per chi la deve far rispettare. 

Sfogare ira e collera non ripaga delle amarezze e delle ingiustizie, ma alimenta vorticosamente la spirale di odio e violenza che respiriamo quotidianamente. La vera forza sta nel saper controllare le proprie reazioni, persino quelle ritenute maggiormente legittime. Lo sfogo degli istinti è indelebile segno di debolezza e qualifica negativamente le istituzioni che servono il Paese. Non è la collera che lenisce le ferite, ma la risposta equilibrata e composta. Non è la vendetta che compensa il dolore patito, ma la corretta applicazione delle norme a corrispondere la pena per le malefatte compiute. Spesso – complici le farraginose dinamiche giudiziarie e le estenuanti lentezze giudiziarie – chi ha sete di giustizia si tramuta in giustiziere, violando lui stesso le leggi che vorrebbe altri rispettassero. L’accoltellamento del sottufficiale deve far riflettere sulla carenza di personale, sul deficit di strumenti investigativi, sui tagli alle risorse, sugli adeguamenti stipendiali che si fanno attendere per decenni, sul menefreghismo della politica che si occupa dei propri uomini e donne in divisa solo dopo eventi luttuosi. 

Il brutale sbraitare di chi siede sugli scranni più alti viene erroneamente interpretato come profonda solidarietà, mentre è solo una calibrata azione di propaganda elettorale. Quel mancato rispetto per le Forze dell’Ordine (e, quel che è peggio, per ogni articolo e comma di qualsivoglia norma) è palesato quotidianamente con le strumentalizzazioni di ogni fatto in cui alle parole non seguono mai i fatti. La più impetuosa prepotenza diventa la colonna sonora di un film cui non vorremmo assistere, si configura come la sigla di un Cucchi 2.0 che davvero non può trovare spazio in un Paese civile. Dalla nave Diciotti alla Gregoretti, c’è chi ritiene di poter replicare con un fin troppo consueto ed altrettanto inopportuno “la loi c’est moi”. Facile, troppo facile, quando si sa di poter sfuggire a qualsivoglia contestazione di addebiti (o di reati) approfittando dell’immunità parlamentare e della vigliaccheria dei paladini dell’onestà che si guarderebbero bene dal votare l’autorizzazione a procedere per paura di perdere il seggio alle Camere.

Non è questo il genere di comportamento da prendere ad esempio. L’operatore di polizia deve essere il primo a rispettare le regole del gioco, a dimostrare che le scritte “ACAB” o “1312” non hanno fondamento: non è vero che All Cops Are Bastards e, quindi, che tutti gli agenti sono bastardi. Quell’orribile espressione, però, ben si attaglia a chi – in sfregio alle leggi – si macchia di infamia e vanifica ogni sforzo dei colleghi. Se mancano etica, coscienza, lealtà e qualunque altro connotato positivo, ci si ricordi almeno che basta un telefonino o una fotocamera per punire la gratuita prepotenza e la feroce tracotanza. Basta il “clic” di qualcuno che non è d’accordo ma non ha la forza di interrompere la incresciosa violenza in corso. Quella foto è stata scattata sicuramente da un collega del torturatore perché in quella stanza è impossibile immaginare la presenza di estranei. Quella foto è il timido sussurrare “non siamo tutti così” di chi vuole che si sappia che l’Arma dei Carabinieri è fatta di gente perbene e non di qualche mela marcia che – purtroppo – non manca mai in qualunque organizzazione. Quella foto non è una bandiera da sventolare su Twitter per mostrare il pugno forte dello Stato che non si piega, ma è piuttosto l’ulteriore coltellata a chi si è sacrificato per servire la sua Patria non solo con qualche slogan populista. In momenti così dolorosi bisogna ricordare che si deve fare giustizia, non giustiziare

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