Negli Stati Uniti da un secolo il giornalismo culturale si identifica con The New Yorker. Da oggi nella metropoli Usa un’esposizione celebra la storia dell’influente settimanale. “A Century of The New Yorker” è il titolo della mostra che illustra la storia dell’influente settimanale culturale “The New Yorker” dal suo lancio nel 1925 ai giorni nostri. E presenterà documenti della fondazione, manoscritti rari, fotografie, copertine e vignette tratte dal patrimonio della New York Public Library, sede dell’esposizione. “Alcuni sostengono che la città di New York sia diversa dal resto dell’America, che non la rappresenti, che ne incarni l’anima più elitaria, progressista, culturalmente aperta, creativa- spiega Alessandro Bonaccorsi-. In genere quelli che amano follemente NY ci abitano e non credono che ci siano posti al mondo più interessanti della città in cui abitano. È con queste premesse che nel 1925 due giornalisti fondano una rivista che farà storia. Vogliono che parli soltanto di New York e dei suoi abitanti e lo faranno così bene che influenzeranno l’idea che tutto il resto del mondo si farà di quella città. Cento anni fa nasceva The New Yorker (letteralmente ‘Il Newyorchese’) che voleva raccontare la città dal suo interno, come un microcosmo a sé stante, splendido ed interessante“. Dunque “i nomi più famosi che vengono in mente tra gli artisti coinvolti nel corso della storia della rivista sono quelli di Saul Steinberg, del francese Jean-Jacques Sempé, di Art Spiegelman (l’autore del famoso graphic novel “Maus”), dell’illustratore goticheggiante Edward Gorey, ma è impossibile elencarli tutti. Si può solo dire che molti tra i migliori illustratori di ogni tempo sono stati chiamati a creare immagini interne e copertine”.
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Linea culturale
Ricostruisce Bonaccorsi: “Il giornalista Harold Ross. che negli anni Venti fu uno dei fondatori del New Yorker, ebbe a dire che ‘Il New Yorker si aspetta di distinguersi per le sue illustrazioni, che includeranno caricature, schizzi, vignette e disegni umoristici e satirici in linea con il suo scopo’. Fu così che già negli anni Quaranta questa attenzione verso l’arte figurativa, fece sì che arrivassero in redazione, ogni settimana, oltre 2500 disegni che speravano di essere pubblicati“. Considerando che ogni numero conta al massimo una trentina di disegni e illustrazioni, oltre ad altrettanti disegnini (commissionati ad un solo autore), “si capisce come il lavoro dell’art director di questa rivista sia sempre stato molto impegnativo”. Una grafica minimale ed elegante, quindi. “Per una rivista che punta quasi tutto sui contenuti scritti, è necessaria un’impaginazione semplice”, osserva Alessandro Bonaccorsi. Vengono usate tre colonne per gli articoli, di cui le due più esterne per inserire a tutta larghezza disegni e illustrazioni, qualche rara foto e i testi poetici o le citazioni. “A volte gli articoli iniziano con una foto o illustrazione a tutta pagina, ma non c’è una vera propria regola. I font utilizzati sono soltanto due. Per le testate si usa un font originale disegnato nel 1925 dal primo direttore creativo della rivista, Rea Irvin. Mentre mentre per i testi interni si usa il Caslon, un grande classico della tipografia, che una derivazione settecentesca, meno estrosa, del più famoso Garamond”.
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Impronta culturale
La mostra apre oggi 22 febbraio e durerà fino al 21 febbraio 2026. Mette in evidenza il ruolo di autori famosi come E.B. White e Vladimir Nabokov. Ma anche di collaboratori meno noti, come artisti, redattori, dattilografi e correttori di bozze. Vengono esposti l’elenco manoscritto di Dorothy Parker degli “Autori non attraenti di cui ammiro il lavoro”, un promemoria di Katharine White a Harold Ross sul malcontento del personale amministrativo della rivista nel 1944. E la copia di Vladimir Nabokov di “55 Short Stories from The New Yorker” (1949) con i suoi voti scritti a mano per ogni storia. Oltre alle macchine da scrivere usate da Lillian Ross e William Shawn. In mostra anche l’artwork originale del primo numero di Rea Irvin. La bozza manoscritta di “Refugee Blues” di W.H. Auden del 1939. Gli incarichi manoscritti di John Updike per “Talk of the Town” del 1940. La bozza dattiloscritta di “A sangue freddo” di Truman Capote, con revisioni e cancellazioni di William Shawn. Il dattiloscritto originale di Hannah Arendt del 1963 di “Eichmann a Gerusalemme”. Racconta Alessandro Bonaccorsi: “Uno spirito un po’ snob, un’ironia caustica, un’aura malinconica, sostenute da una esaltazione per la città e la sua mitologia, sono gli ingredienti che rendono il New Yorker, da quasi cento anni, perfetto per raccontare la Grande Mela al resto del mondo”. Nel 2019, la sua tiratura era arrivata ad oltre un milione di copie vendute in tutto il mondo. Per una rivista in fondo letteraria, in cui gli articoli sono lunghissimi e non si usano praticamente foto, è un successo incredibile”. E aggiunge: “Certo gli americani sono sempre stati bravissimi a far credere a tutto il mondo che tutto ciò che arrivava dalla Grande Mela era di importanza capitale, bello e interessante. Le serie tv e il cinema degli ultimi 30 anni hanno sostenuto il nuovo mito di New York, che da città rumorosa, sporca e violenta, per quanto vivace culturalmente, è diventata culla della moda, del glamour, dell’arte e della bella vita. E anche la letteratura ha avuto il suo ruolo, con centinaia di libri ambientati a New York. Come ad esempio quelli di grande successo dello scrittore Paul Auster.
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Storia affascinante
“In modi che vediamo e non vediamo, il ‘New Yorker’ ha plasmato molti aspetti della cultura, della politica e della vita intellettuale americana nel corso dell’ultimo secolo“, evidenzia Julie Golia. Direttore associato di Manoscritti, Archivi e Libri rari della New York Public Library, co-curatore della mostra. Prosegue Golia: “‘A Century of The New Yorker’ invita i visitatori della biblioteca a entrare nelle pagine della rivista. Rivelando l’affascinante storia della rivista più importante del Paese attraverso le nostre ricche collezioni”. Osserva Alessandro Bonaccorsi: “Una delle caratteristiche tattili del New Yorker è la leggerezza della carta, che, se in altri casi potrebbe sembrare sinonimo di risparmio, qui diventa un vezzo per migliorare la lettura: le pagine sono leggere come quelle di un quotidiano. Perché la rivista è fatta per essere letta avidamente e non si sente il bisogno di usare carte patinate o più spesse per far risaltare foto o illustrazioni a tutta pagina”. Inoltre “il formato è di 20×27 centimetri, qualcosa di meno dell’A4 (leggermente ridotto qualche anno fa rispetto al formato originario)“. Ciò “favorisce le spedizioni e permette una maneggevolezza tale da poter essere arrotolata”. I contenuti “sono il cuore del New Yorker, non i fronzoli, non la patinatura. Nelle sue pagine si fa cultura, si raccontano storie, si parla di arte, di filosofia, di politica, non di lifestyle, di oggetti, di moda. E non c’è niente da vendere, tanto che anche gli annunci sono pochi e per niente invadenti. Non è una rivista basata sull’apparenza, ma sulla sostanza e il suo aspetto spartano tiene fede a questa definizione”.