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La crisi dei valori

Oramai la cosiddetta crisi valoriale ha raggiunto la piena affermazione, nei dialoghi e negli scambi dei commenti ed in ogni forma di comunicazione sociale poiché da un canto si assiste all’imperversare di ogni tipo di dissacrazione di qualunque regola comportamentale e dall’altro alle sempre crescenti manifestazioni di ostilità nei confronti di siffatte apparenti novità. Certamente ogni epoca ne ha conosciuto qualcuna: la rivoluzione giovanile degli anni Sessanta mise fine a tutta una serie di regole conviviali che furono soppiantate dalle nuove proposte dei giovani, che si fecero crescere i capelli e le barbe, cambiarono il modo di vestire eliminando cravatte e gonne sotto il ginocchio, mutarono i dialoghi ed i modi di essere, sfatando i miti dei costumi sociali che avevano caratterizzato gli anni precedenti.

Se fu la ricostruzione dopo la guerra mondiale oppure la crescita culturale dei ragazzi, se fu la migliore distribuzione delle risorse e la fine delle caste con l’accesso libero ad ogni scuola, università o professione regolamentandone soltanto il merito individuale, se fu l’ondata libertaria proveniente dal mondo anglosassone che iniziava ad imporsi come guida per effetto della vittoria delle libertà contro il rigore formale, è argomento che ha interessato la sociologia e gli storici del Novecento, che procedono con analisi e metodo scientifico per spiegare i fenomeni della trasformazione della società che abbiamo vissuto.

Qui, invece, abbiamo il punto di osservazione dell’ultimo della classe, di quello che non ha vinto ancora nulla, che non riesce neanche ad osservare questi fenomeni da cui viene travolto, sentendosi sospinto in un mare in cui non riesce a riconoscersi e fatica a nuotare verso una delle nuove mete che vengono indicate, poiché sente di non avere i requisiti per vincere nulla, che non gli interessa offrire i propri disagi per fare bandiera della propria diversità, che anela ad uno stato di serenità interiore sconvolto dal turbinio dei riferimenti a cui aveva imparato ad appoggiarsi, che si sente perso ed ha invece bisogno di aggrapparsi ad uno scoglio sicuro, scegliendolo tra quelli meno scivolosi. Quell’ultimo sa che è ancora una persona, non riesce ad assimilare di essere un numero tra i tanti, non vuole salire su alcun carro, né degli pseudo vincitori né tanto meno degli oppressi perdenti. Vuole stare in pace, ritrovarsi tra i suoi affetti, familiari amicali o domestici che siano, tra i propri oggetti, nei propri luoghi, riempendosi di cose apparentemente insignificanti ma che gli fanno immensa compagnia e gli donano serenità per poi scoprire che è invece proprio felicità. E si è allontanato. Non legge i giornali, non ascolta la televisione, non frequenta i social, non capisce le ragioni delle guerre e non riesce a schierarsi se non dalla parte della pace, quella che non prevede l’uso di alcuna delle armi, né militari né economiche né mediatiche; gode dei propri affetti, frequenta solo amici e parenti scelti con cura per le affinità personali ed emotive, sta in disparte.

Un tipo di persona che in passato veniva definito alternativo, se non proprio un orso, e veniva biasimato per la mancata partecipazione agli stimoli sociali che sollecitavano le masse, oggi è invece sempre più ricorrente, sempre più diffuso, anche maggiormente apprezzato poiché si tiene fuori dalla mischia, sa dire: no grazie, come Angela Carini, quando le regole del gioco diventano diverse. E così riesce a sfuggire al tritacarne mediatico, al successo effimero, alle delusioni cocenti, alle lapidarie e sommarie sentenze di chi giudica in fretta senza sapere né capire. Però ha conquistato la sua tranquillità, la sua serenità interiore, ha imparato a guardare dentro se stesso e dentro gli altri con un cuore diverso, più sincero, più autentico, e le sofferenze reali gli sembrano più sopportabili, dopo che sono sparite quelle imposte dall’improbabile confronto con non si sa chi. È più felice, ha imparato a frequentare piccoli gruppi, a dare un senso alla propria esistenza, a fare del bene così è più propenso a riceverne.

È tornato a distinguere tra il piacere e le virtù, memore delle risposte che Seneca seppe dare ad Epicuro, ha capito che la vita non è solo l’orgia del piacere e che il vero piacere non deriva dall’abuso delle passioni o dall’inseguimento di immagini vane quanto certamente irraggiungibili, rilegge la propria vita con occhi diversi, con i propri occhi ed i propri sentimenti, e comincia ad apprezzarla davvero, a dare senso a quanto gli è davvero successo, che è quello che è realmente accaduto, poiché il successo è il participio passato del verbo succedere, e si può solo osservare guardando indietro ma non può essere una meta da inseguire. Lo ha capito Gianmarco Tamberi.

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