Era il 19 novembre del 1963. Seconda sessione del Vaticano II. Il progetto di documento sull’ebraismo era stato subissato di critiche, specialmente dai vescovi dei Paesi arabi, e rischiava di venire accantonato. Allora, per difenderlo, era sceso in campo lo stesso presidente del Segretariato per l’unione, responsabile del testo. E aveva fatto una grande impressione sentire l’appassionato intervento del cardinale Agostino Bea. Lui, tedesco, che ricordava le gravissime responsabilità del nazismo nell’acuirsi dell’antisemitismo; ma sollecitava anche la rimozione di “alcuni pregiudizi” verso gli ebrei che persistevano in non pochi cattolici.
Il 28 ottobre 1965 Papa Paolo VI promulgò la Dichiarazione conciliare Nostra aetate, ritenuta “testo fondativo” del dialogo con le Religioni. In particolare, al paragrafo 4, la Dichiarazione fa alcune asserzioni importanti sulla relazione della Chiesa con l’ebraismo. Nella prima fondamentale affermazione leggiamo: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo…Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo”. Queste parole rispecchiano il riconoscimento delle radici ebraiche del cristianesimo e della sua eredità ebraica. Come ha osservato Giovanni Paolo II durante la sua visita alla sinagoga romana il 13 aprile 1986, la religione ebraica non è estrinseca ma intrinseca al cristianesimo ed il cristianesimo ha perciò una relazione unica con l’ebraismo. La seconda affermazione di fondamentale importanza riguarda la condanna dell’antisemitismo.
Nella Dichiarazione, la Chiesa deplora “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”. La “Nostra aetate”, inoltre, capovolge poi due millenni di predicazione e di insegnamento quando afferma che la responsabilità per la morte di Gesù non deve essere ascritta a tutti gli ebrei: “E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua [di Gesù] passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo”. Con la “Nostra aetate”, il Concilio Vaticano II ha dunque cambiato in modo radicale l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del popolo ebraico e ha gettato le fondamenta per una nuova relazione.
Proprio da li, era cominciato quel processo di “purificazione della memoria”, che sarebbe culminato nel riconoscimento delle colpe commesse dai cristiani – e dalla stessa Chiesa – lungo la storia, e quindi dei tanti tradimenti consumati nei confronti dello spirito di Cristo e del suo Vangelo. Com’era accaduto al tempo delle Crociate. E poi, con i massacri degli indios durante le conquiste coloniali. E l’Inquisizione, con il famoso “caso Galileo”. E come non ricordare l’atteggiamento di intolleranza, se non di persecuzione, verso ebrei, schiavi africani, donne, minoranze delle altre Chiese cristiane? Quell’esame di coscienza collettivo, i vescovi polacchi avevano scritto una lettera ai confratelli tedeschi.
“Vi tendiamo le nostre mani perdonandovi e chiedendo di perdonarci”. Il perdono dato e richiesto. Un gesto profondamente evangelico, inteso a favorire la riconciliazione tra i due popoli, tra le due nazioni. Oltretutto, una iniziativa lungimirante, perché di lì a qualche anno Polonia e Germania Federale avrebbero stipulato un accordo sulla frontiera dell’Oder-Neisse. Ma in quei giorni, con Mosca furibonda per quella che considerava una interferenza nella sua politica estera, era successo di tutto. L’episcopato polacco era stato accusato di collusione con Bonn, di avere “assolto” i criminali nazisti. Proteste nelle piazze, sotto le finestre dei vescovi. Ritirato il passaporto al cardinale Wyszyński. Attaccato Wojtyla con una denuncia pubblicata sui giornali, e firmata dagli operai della Solvay, la fabbrica dove lui da giovane aveva lavorato. Boicottate le celebrazioni nel 1966 per il millennio del battesimo della Polonia e della fondazione dello Stato Nazionale. E tuttavia, quella lettera fece storia. E quella vicenda segno profondamente Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia e futuro Papa.