Dall’emergenza Covid-19 alla guerra in Ucraina è stato un attimo. Come se nel pieno di un sospiro di sollievo, d’improvviso, fosse mancata l’aria. E noi, tutti, lì, col fiato sospeso, come spettatori inermi, storditi. Lo scoppio della guerra, però, è stato il risveglio inatteso: un incubo tangibile che purtroppo ha il volto di un dato di realtà che lascia ogni coscienza in allarme. Non siamo al sicuro. Psicologicamente ancora meno: con le immagini delle città sventrate e dei morti sono tornati, specie nei più sensibili, ansia, insonnia e un disorientamento di fondo che fa far fatica a vivere.
La prima ragione di tanto turbamento, in noi italiani, è che il conflitto russo-ucraino non è solo un puntino negli equilibri geopolitici mondiali, ma è scoppiato in Europa, a casa. La guerra, inoltre, è un archetipo, che contiene la paura più grande dell’essere umano, quella della morte, che si fa angoscia. V’è una chiara fatica emotiva che si pone come una delle più evidenti conseguenze della guerra.
Siamo giunti al cosiddetto overload. Un sovraccarico che comporta la difficoltà oggettiva di elaborare eventi traumatici continui all’interno di un così sconvolgente periodo. Negli ultimi decenni, la psicologia e la psichiatria si sono sempre più occupate degli effetti dei traumi sulle popolazioni: dalle ricerche sappiamo che esiste una differenza netta tra le esperienze traumatiche legate a catastrofi naturali (terremoti, tsunami, valanghe, ecc) e i traumi cosiddetti “man-made”, perpetrati per mano umana, come i traumi di guerra. E quando il perpetratore del trauma è una persona di cui la “vittima si fida”, le ferite diventano ancora più profonde.
Le conseguenze dei traumi “man-made” sono più profonde: disturbi dissociativi, disregolazione degli impulsi, somatizzazioni, alterazioni nella sfera della personalità e dell’identità, autolesionismo, rischio di suicidio, elevata possibilità di sviluppare comportamenti abusanti, disturbi dell’attenzione e dello stato di coscienza, disturbi nei sistemi di attribuzione del significato e della percezione del proprio Sé. Per affrontare una situazione come quella descritta, è necessario passare da una posizione di ricevente passivo a quella di soggetto attivo. Non si può solo subire, bisogna difendersi e dare esempi di coraggio.
Gli adolescenti reagiscono alla minaccia e al pericolo, i bambini non hanno la capacità di produrre pensieri protettivi che li facciano sentire sicuri. Le immagini di case abbattute e di separazioni familiari sono lo specchio delle loro paure più profonde. In tal senso, fondamentale è il ruolo degli adulti che devono rimanere base sicura rispetto alle reazioni dei piccoli, farli sentire protetti, sia quando parlano di certi temi in casa, sia in riferimento alle loro espressioni e alla loro comunicazione non verbale. Persino il modo in cui ci si muove costruisce, infatti, una sorta di copione implicito all’interno del quale il bambino inserisce la sua percezione di sicurezza. In una situazione avversa, vedere un adulto che non perde il controllo è fondamentale per il bisogno di sicurezza dei bambini. Siamo in un tempo in cui si evidenziano, tra le reazioni psicologiche più note, tendenza all’individualismo, difficoltà a sviluppare fiducia nell’altro e voglia di senso di comunità.
Perciò è importante non stancarsi di parlare di pace. Soprattutto, non bisogna smettere di testimoniare come ogni conflitto relazionale e/o interpersonale debba, a maggior ragione, oggi, essere riportato ad una dimensione maggiormente mediata che eviti ogni possibile trauma. Il trauma, come ci ricorda Recalcati, è quando ci scopriamo inermi, quando siamo travolti da un evento naturale o innaturale, quando la vita è spogliata da tutti i suoi involucri simbolici e si manifesta come nuda vita, vita inerme. L’assenza, la morte diviene l’esperienza irreversibile della perdita. L’oggetto che dava senso non c’è più. È perduto l’oggetto del mondo e, con esso, il senso stesso del mondo. Un buco si apre nel mondo dell’individuo… L’opera dell’uomo che vuole salvare ospita la ferita e il dolore, eleva la ferita alla dignità sublime della poesia.
L’elevazione della ferita è sublimazione in un’ottica di ricostruzione. La ferita, così, può divenire, un’opera d’arte. dalla negazione della libertà si può passare all’affermazione indiscussa del diritto inalienabile dell’uomo ad autodeterminarsi. Il corpo di Cristo risorto è un corpo che porta ancora con sé le ferite. La Resurrezione non è la restaurazione del corpo, la ferita subita è solo la condizione della possibilità di una vera rinascita. Non c’è un esorcismo fobico della morte, non c’è solo la negazione della guerra o la volontà di non affrontarla; c’è soltanto un desiderio di pace che vuole trasformare la ferita in poesia, un’azione che sposta le cose e le modifica fino a cambiarle senza dimenticare e annullare le ferite che fanno memoria, ma che vengono superate da una storia che vuole affermare la ricostruzione e la vita, la libertà ideologica e la forza del coraggio. Papa Francesco ci ricorda sempre che la pace si costruisce soltanto proprio con il coraggio, con volontà e spirito di sacrificio, non soltanto da parte dei potenti della Terra, ma da parte di ogni uomo e di ogni singola nazione. La pace è, infatti, il risultato di un’azione comune tesa a levigare le ferite del passato, è il risultato di un successo a cui tutti possiamo e dobbiamo contribuire, è l’opera d’arte che, sola, può trasformare le ferite causate dalla guerra in poesia.