Imovimenti di emancipazione e liberazione delle donne dagli anni ’60 furono portatori di un decisivo messaggio di cambiamento. Un messaggio rivoluzionario al quale molte donne aderirono e aderiscono, ancora oggi, con passione. E che altre donne, invece, rifiutarono e stigmatizzarono, come, peraltro, avviene ancora oggi, soprattutto per paura di essere giudicate abbandonate, penalizzate.
Il messaggio di fatto recita: “Il corpo è tuo e lo devi gestire in prima persona”. Lo slogan era, infatti: “Il corpo è mio e me lo gestisco io!”. Così, dopo la verginità obbligatoria prima del matrimonio, i roghi per le streghe, la lapidazione per le adultere, il corpo delle donne, intorno al quale gira, da sempre, l’energia vitale del mondo, torna ad essere delle donne. Così, ed anche nelle forme più deleterie, dolorose e dannate quali: l’aborto, l’utero in affitto, l’abuso sessuale, la violenza domestica e quella “assistita”, le forme di sfruttamento della prostituzione – anche e soprattutto minorile – la riduzione in schiavitù e gli stupri etnici.
Appartiene loro il diritto a poterlo gestire e il diritto ad esprimersi. Per diventare, integrando mente- corpo-immaginario, protagoniste di un futuro che non veda le donne ferocemente penalizzate in quanto donne, in quanto “femmine”, portatrici e creatrici di vita, bensì consenta loro di fornire – proprio a partire dalla vita prenatale e dalle infinite comunicazioni neurochimiche che passano tra madre e feto, prima della nascita di un bambino/a – un sostengo primario e radicante alla salute mentale di chi viene al mondo. Si tratta si quel primario radicante contributo che, anzitutto e soprattutto, durante la gravidanza, soltanto una donna che si senta rispettata, amata, valorizzata, sostenuta, garantita – per il fatto stesso di dare vita, col suo corpo, alle forme della vita – può dare alla felicità, alla sacralità, al benessere e alla futura salute mentale di chi viene e verrà al mondo.
Quel contributo può e deve essere garantito, nel “superiore interesse del minore” e quale “prevenzione” al disagio familiare, educativo, sociale, proprio contribuendo ad una tutela e ad una considerazione del valore delle donne che, ovunque e comunque, deve, anzitutto e soprattutto dagli uomini, essere riconosciuto come “supremazia della vita”. Supremazia che la “madre” e/o la donna, origine della vita di ogni essere umano, maschio o femmina che sia, comunque rappresenta.
“Supremazia della vita” che non può e non deve essere gestita limitando, controllando, opprimendo, squalificando, terrorizzando invidiando il grembo e il seno e, di poi, l’intelligenza, l’opera, la sessualità, l’intraprendenza, la libertà delle donne. Le donne, infatti, non sono e non possono essere, per la salute fisica mentale, spirituale, culturale, economica di ogni società e del mondo, “un oggetto” da assoggettare. E, ancora, “un oggetto” da usare per la volontà di dominio, per il piacere-dolore e per il potere negativo e castrante di uomini immaturi e profondamente frustrati. Uomini violenti perché violati nell’identità della loro crescita.
Si tratta, allora, di una malata volontà di dominio, di una malata affermazione di sé e della supremazia maschile che, in tal senso, non può che contrapporre – e le guerre , da sempre in atto sul Pianeta, lo dimostrano! – il potere di dare vita a quello di dare morte. In tal senso, riproporre “la riapertura delle case chiuse” per combattere il persistente fenomeno della “prostituzione in strada” mentre, invero, quella sul web, tra poco e nel frattempo, sta prendendo piede e prevarrà, altro non significa che riproporre le stesse dinamiche di violenza e perversione che generano la prostituzione femminile.
Motivazioni crudeli, volgari, feroci, laceranti, inumane sulle quali non si può continuare ad edificare i rapporti di scambio, di conoscenza, di piacere tra donne ed uomini. Sono motivazioni che, in modo schizofrenico, ripropongono una fragilità di maschi adulti che, regressivamente, tentano di riempire attraverso “l’accudimento sessuale” da loro richiesto a donne che, per tali funzioni, essi pagano, il vuoto di accudimento primario, infantile, preadolescenziale non ricevuto proprio dalle figura di riferimento materno o, comunque, del femminile. O, invece, di reiterarne l’eccesso, invasivamente e, perfino, incestuosamente, vissuto. O, infine, per ottenere, proprio dallo “sbarramento” consolativo e tutelante, costituito dai corpi della donne e dal “reinfetarsi”, anche con l’atto sessuale, in quei corpi e, perfino, con la violenza, proprio una difesa dall’angoscia di morte. “Angoscia di morte” che è la madre di tutte le angosce umane e che trova, troppo spesso, anche e soprattutto nella pratica del controllo, dell’abuso, dello sfruttamento dei corpi delle donne, una violenta ingiusta e ingiustificabile modalità di difesa.
Prof.ssa Maria Rita Parsi – psicologa e psicoterapeuta