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Brexit e Covid, i complicati rebus del Regno Unito

Il processo di uscita è su un binario danneggiato, mentre il coronavirus costringe alla "regola del sei". E Johnson si cautela col mercato asiatico

Non solo coronavirus. Che lo si voglia o no, nell’affollato dossier europeo, rivisto in ottica pandemia, la voce Brexit è ancora presente. E, per inciso, un affare non più rimandabile per un’infinità di motivi. Non ultima la situazione legata al progredire del Covid-19, che ha reso l’accordo fra Regno Unito e Unione europea una priorità, se non altro per stabilire le relazioni future e cancellare dall’agenda di Bruxelles una possibile mina vagante. Del resto, mettere un punto alla questione è anche interesse di Londra, già virtualmente fuori dal giro europeo vista l’intesa sull’uscita e il processo già avviato da gennaio scorso, ma di fatto ancora nel limbo fra il dentro e il fuori. Una situazione che non giova né all’una né all’altra parte ma che, al momento, sembra ben lungi dall’essere sbloccata.

Brexit e No deal

Il problema fondamentale è che l’intesa sull’accordo commerciale, l’ultimo step che metterebbe a posto tutte le tessere del puzzle, è diventato un rebus difficile da sciogliere. Con il premier britannico, Boris Johnson, che da buon brexiteer non si strapperebbe i capelli in caso di un No deal. Anzi per la verità, dopo l’ultimo incontro fra le delegazioni avvenuto a metà agosto, quello che appariva uno spettro potenzialmente catastrofico per un’economia comunque duramente colpita dalla pandemia come quella britannica, sembra ora la via più concreta. Non solo. Il leader tory, tanto per riattizzare le braci, ha fatto già sapere che, in caso di mancata intesa entro il 15 ottobre, anche il fatidico accordo d’uscita (quello costato premiership e leadership di partito a Theresa May) potrebbe subire qualche revisione.

La questione Irlanda del Nord

Non è così facile. Da una parte, pesa l’investitura totale ricevuta da Johnson per tirar fuori i britannici dal pantano Brexit, che ora si aspettano di affrontare il post-Covid con il dossier d’uscita già in archivio. Dall’altra, c’è la questione Irlanda del Nord. Dopo mesi e mesi di tira e molla sul backstop, la volontà comune è che fra Dublino e Belfast non vengano a crearsi nuovi muri. Tanto che, in caso di No deal, il confine fra Eire e Nord Irlanda resterebbe di fatto entro i termini dell’Accordo del Venerdì Santo, sancendo una permanenza di Belfast nel mercato comune europeo.

E anche da Bruxelles fanno muro, con il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che invita tacitamente Johnson a non fare passi falsi. “E’ tempo che il governo britannico si assuma le sue responsabilità. In gioco c’è la credibilità internazionale del Regno Unito”. Col premier che, intanto, sigla un accordo commerciale post-Brexit col Giappone.

Istanze e contagi

Difficile rivedere situazioni di questo tipo, col rischio concreto di trovarsi alle prese con impreviste fratture interne. Senza contare che, in caso di uscita senza accordo, potrebbe farsi nuovamente avanti la Scozia, con la richiesta di un possibile nuovo referendum che, stando agli indicatori pre-Covid, potrebbe davvero portare la Croce di Sant’Andrea fuori dall’Union Jack. Da valutare se le difficoltà economiche portate dalla crisi pandemica abbiano condotto la leader Sturgeon a rivedere le istanze indipendentiste in attesa di tempi migliori. Anche perché nel Regno Unito i contagi tornano a salire (ieri quasi 3500) e dal governo arriva la “Rule of six”, il divieto di incontrarsi fra più sei persone di diversi nuclei familiari, sia all’interno che all’esterno. Una decisione che dovrà sortire qualche effetto. Se non altro per scongiurare il rischio di un nuovo lockdown, con tutte le difficoltà che ne deriverebbero.

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