In occasione del viaggio di papa Francesco in Messico fece notizia il mea culpa per le colpe della Chiesa all’epoca dei conquistadores spagnoli. Jorge Mario Bergoglio ebbe la forza interiore e il coraggio di fare memoria del passato, riconoscendo gli errori commessi e “i peccati personali e sociali, le azioni o omissioni che non hanno contribuito all’evangelizzazione”. E’ un quarto di secolo, cioè dal Giubileo del 2000, che i “mea culpa” fanno discutere. “Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede”, diceva Giovanni Paolo II. In altre parole, fare i conti con il passato senza paura. E invece, c’erano importanti uomini di Chiesa, compresi diversi cardinali, e non pochi dirigenti della Curia romana, i quali continuavano a mostrarsi critici nei riguardi di quella novità wojtyliana.
Tutta la Sacra Scrittura, e specialmente il Nuovo Testamento, mettono in luce la grandezza e la profondità del perdono di Dio; ma evidentemente era qualcosa che non faceva ancora parte del bagaglio culturale e, prima ancora, della vita di fede, di parecchi ecclesiastici. Prova ne sia che alcuni episcopati ci metteranno degli anni, prima di uscire da quello che uno storico aveva definito «ossequioso silenzio», e cioè prima di trovare il coraggio di riconoscere apertamente le loro mancanze, le scandalose compromissioni con i poteri temporali. E tuttavia, con il passare del tempo, i “mea culpa” cominciarono a far breccia nelle perplessità, nelle resistenze. A colpire molti, era il “risvolto” costruttivo delle denunce, pur severe, che il Papa faceva a riguardo delle responsabilità storiche dell’istituzione ecclesiastica. Come dire che, proprio a partire da una revisione autocritica delle vicende del passato, sarebbe stato possibile avviare una profonda trasformazione di vita nella comunità cattolica. E poi, a colpire, era anche quel perdono a senso unico, senza chiedere assolutamente nulla, senza doversi aspettare niente in cambio. Appunto perché, per Karol Wojtyla, la gratuità del gesto era la condizione indispensabile, assoluta, per la sua credibilità, per la sua efficacia. In concreto, perciò, i “mea culpa” favorirono un cambiamento di clima, di mentalità, rispetto a un passato. in cui prevaleva il contrasto, la condanna. Non solo, ma, contribuendo ad appianare molte delle antiche incomprensioni, testimoniarono la volontà di Roma di andare avanti sulla strada dell’ecumenismo, del dialogo con le altre Chiese cristiane, con le altre religioni.
Sulle orme del predecessore da lui canonizzato Jorge Mario Bergoglio ha detto durante il suo viaggio in Canada: “Molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice. Le politiche legate alle scuole residenziali sono state catastrofiche. Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo”. E, incontrando le popolazioni indigene, disse: “Vi ringrazio per aver tirato fuori i pesanti fardelli che portate dentro, per aver condiviso con me questa memoria sanguinante. La vostra terra, insieme a una memoria antica, custodisce le cicatrici di ferite ancora aperte. Chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali”.