Frettolosamente, pure troppo a dire il vero, il cosiddetto popolo della sinistra ha già confezionato il libro cuore del post primarie. In Italia è tornata l’opposizione. Parole grosse, per usare un lessico familiare a quel mondo giovanile poco attratto dalle primarie, ma incollato alla rete. Perché queste elezioni di piazza sono state solo la messa in scena di un copione già scritto da mesi, dove tutto era già successo. Però il potere, per essere credibile, ha bisogno della sua rappresentazione scenica. Un po’ per ostentazione, un po’ per dimostrare l’esistenza in vita. Almeno sul secondo punto il Pd ha centrato l’obiettivo.
Un corpo di sinistra c’è, adesso deve mettere fuori le braccia per indicare la via e le gambe per correre. Dopo l’orgia renziana, capace solo di travolgere tutto e tutti lasciando solo macerie al punto da annichilire anche lo stesso renzismo, rampante solo per una breve stagione, il perbenismo zingarettiano non è sinonimo di pura alternativa a Salvini. La visita ai cantieri della Tav, scegliendo le grandi opere come terreno di scontro per il primo confronto, non è una cattiva idea. Un paese invecchiato come il nostro ha bisogno di grandi opere per ringiovanirsi, come si trattasse di un lifting. Ma per correre contro la maggioranza giallo verde non basta la tav. Serve molto altro. E serve subito, se davvero il Pd anela a ridiventare il baricentro di una coalizione di centrosinistra declinata in salsa ulivista.
La direzione sembra essere quella ma sbagliare strada è facilissimo. L’era renziana resta un fantasma all’opera e il finale triste del renzismo rampante dimostra quanto sia facile sbagliare. Zingaretti, dunque, ha davanti a se un lavoro importante, significativo, di costruzione più che di relazione. La campagna elettorale per le europee sarà un grande banco di prova. La fila ai gazebo, figlia di una organizzazione in scala ridotta e non certo di folle oceaniche ai seggi di piazza, ha dimostrato come vi sia una porzione del Paese pronta ad affrancarsi dalle sirene giallo verdi. Le quali, sondaggi alla mano, sono ancora forti e chiare. Ma il vero convitato di pietra di questo valzer delle primarie resta il sindaco di Milano, Beppe Sala. La prova muscolare offerta dal primo cittadino del capoluogo lombardo, non iscritto al Pd e assente ai gazebo, ha dimostrato come l’asse della sinistra buonista e perbenista si sia spostato da Roma a Milano.
Nella Capitale la grande bellezza veltroniana e rutelliana è già storia, un lontano ricordo di una bella epoque che non può tornare. La politica di oggi preferisce l’aridità degli slogan alla profondità del pensiero, la rapidità del tweet alla solennità del ragionamento. Zingaretti sarà in grado di vincere questa sfida? Il governatore del Lazio, sino ad oggi, ha sempre preferito le vie laterali alle grandi arterie. Mai uno scontro diretto vero, mai confronto serio con gli avversari di turno. Per alcuni aspetti sembra affetto dalla stessa sindrome di Berlusconi, volendo piacere a tutti. Esercizio sterile in un Paese intimamente diviso su tutto. Puoi piacere a una parte non a tutti. Questo è il punto, come ha capito beneSalvini, costretto allo strano rapporto con il Movimento 5 stelle. Ecco semmai c’è da capire come si muoverà il Pd a trazione zingarettiana con Di Maio e Fico. Quale parte dei grillini considera dialogante e quale no? Perché questo Pd può sperare solo di strappare voti ai pentastellati. E sarebbero elettori di ritorno, non nuovi.