Una strage silenziosa continua. Oggi i numeri che registrano il tasso di suicidi nelle Forze dell'Ordine impressiona. Soltanto quest'anno si contano 58 casi accertati, 18 nelle Forze di Polizia: nel mese di ottobre 4 agenti hanno scelto di togliersi la vita e nella prima metà novembre si rileva già un caso. Un grido di aiuto silenzioso che, al di là di ogni analisi statistica, rivela un disagio profondo e spesso sottovalutato. Il suicidio è sicuramente l'atto finale , ma spesso non si dà conto dei sintomi tragici che ha la divisa. Su una maggiore presa di coscienza del fenomeno, s'innesta l'impegno della Polizia di Stato: il convegno “La prevenzione del disagio psicologico negli Operatori di Polizia”, tenutosi mercoledì 13 novembre alla Questura di Roma in collaborazione con il Sindacato Italiano Appartenenti alla Polizia (Siap) e partecipato da numerosi relatori – fra i quali il segretario generale Giuseppe Tiani e il sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII e direttore di In Terris, don Aldo Buonaiuto – fa il punto di una situazione articolata, come mostra il riflesso normativo tuttora incompleto – o in parte inadeguato – a rispondere al fenomeno con efficacia. Non a caso la parola-chiave ricorrente è prevenzione: “L'idea, cioè, di mettere un supporto, un sostegno che arrivi prima della cura” ha dichiarato a In Terris Palma d'Alessio, Ispettore capo tecnico della Polizia di Stato e organizzatrice dell'evento. Nonostante spesso si parli di Corpo della Polizia, il lessico non riesce a scalfire l'immagine granitica delle Forze Armate. Una lettura più umana del contesto è, al contrario, una necessità per una professione dove la linea di demarcazione tra pubblico e privato è molto labile. Lo ha ricordato lo stesso Questore di Roma, dott. Carmine Esposito, nel saluto di apertura del convegno: “La Polizia è un valore, e agire per un valore è tutt’altra cosa che agire per gli uomini”. La dimensione spirituale della professione impatta sulla vita del singolo, che ne incarna aspirazioni, ma anche limiti. La giornalista Sara Lucaroni ha ricordato a L'Espresso l'aquila tatuata sulla pelle di Bruno Fortunato, l'agente ferroviario che arrestò l'ex brigatista Nadia Desdemona Lioce. L'agente Fortunato non amava i tatuaggi. Ma quell'atto, fatto alla vigilia del suo suicidio, è la testimonianza concreta di un lavoro vissuto come missione, pur nella forma estrema del sacrificio di sé. I numeri non bastano a definirne i contorni. Prenderne consapevolezza, invece, sì. Il Tavolo del Disagio e l'Osservatorio interforze sui suicidi, istituiti nel febbraio scorso, intercettano la richiesta di maggiore esame di una complessità prima che diventi una vera e propria emergenza. In Terris lo ha chiesto all'organizzatrice del convegno.
L'intervento di Don Aldo Buonaiuto al convegno “La prevenzione del disagio psicologico negli Operatori di Polizia”
Esseri umani, prima che “poliziotti”
Dott.ssa D'Alessio, come nasce l'idea di un convegno?
“Il convegno nasce da una ricerca personale partita da un episodio drammatico. Due anni fa, una mia collega perde la figlia in modo tragico e mi porta alla mente che, una ventina di anni prima, aveva anche perso il marito collega poliziotto suicida. Cerco, allora, informazioni sul disagio psicologico e psichico dei colleghi poliziotti, soprattutto in merito al suicidio. In questo percorso di ricerca incontro Sara Lucaroni, la giornalista de L’Espresso che aveva scritto l'articolo su Bruno Fortunato, il collega morto suicida che aveva arrestato l'ex brigatista Nadia Desdemone Lioce sul treno. A lei racconto quello che stavo facendo e prende corpo l'idea del convegno, cioè di vedere se si può iniziare un confronto con i colleghi e la Polizia su un modo nuovo di raccontare il sostegno e la possibilità di aiuto a livello umano e personale vers gli operatori di Polizia che vivono situazioni difficili”.
Spesso non si considera questo disagio. Il convegno nasce anche per sensibilizzare la società?
“Sì. Ho seguito diversi incontri in passato, come il Convegno del prof. Pompili alla Sapienza sui suicidi, così come quello di psichiatria organizzato dall'Esercito Italiano lo scorso settembre. Quello che notavo, anche nell'uso delle parole, è che spesso ripetiamo parole come corpo della Polizia, corpo dell'Esercito, in cui, cioè, il corpo è visto sempre come primo elemento. Ma spesso dimentichiamo che, oltre quel corpo c’è altro, ci sono una mente e un mondo interni che non possono essere risolti da un punto di vista solo materiale. Un mio amico psicologo ripete spesso che abbiamo cura del corpo, facciamo prevenzione, però quando si tratta di proteggere la mente e quel mondo affettivo interno fatto anche di traumi e abbandoni, non riusciamo ad avere lo stesso approccio. Questo è sintomo di un blocco culturale esterno forte rispetto a certi argomenti. Noi, però, vogliamo un cambiamento e lo vogliamo anche raccontare”.
Quali sono i fraintendimenti in cui si cade?
“Di solito, l’aspetto psicologico è sempre associato a quello medico, cioè valutato da un punto di vista organico. Ma quest'impostazione è riduttiva, perché affrontare un disagio non significa solo prescrivere una pasticca, ma vagliare soluzioni alternative, come il sostegno psicologico e psicoterapeutico. Ripeto: c'è un blocco sociale e culturale da superare”.
L'inchiesta di Sara Lucaroni su L'Espresso ha aperto una finestra su questo mondo silente e inascoltato. Oggi si può fare anche il punto su dati precisi?
“Il Capo della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, a febbraio scorso ha istituito l'Osservatorio sui suicidi delle Forze di Polizia, ma in realtà dati ufficiali pubblici ancora non ne abbiamo. Quelli che otteniamo sono spesso desunti da inchieste giornalistiche. È anche su questo che Convegno vuole parlare, cioè dire: parliamone e facciamo il punto, per evitare anche il rischio di dati parziali o falsati. A ottobre abbiamo avuto 10 suicidi nelle Forze dell'Ordine, 4 in una settimana. Il capo Gabrielli è sensibile al problema, e ci aspettiamo che in futuro l'Amministrazione racconti i dati raccolti”.
C'è una cosa che la colpisce di tutto questo?
“Mi colpisce il silenzio. Il silenzio interno è relativo al fatto che facciamo fatica a livello gerarchico a raccontare la difficoltà, ad affrontarla e a trovare gli strumenti per risolverla. Il silenzio è anche esterno, perché manca, a livello di comunicazione, la capacità di raccontare quello che avviene dentro le Forze dell'Ordine. Tante volte l'evento tragico viene scritto con un trafiletto su un giornale con neanche nome e cognome. Così, la persona che vive un disagio spesso rimane priva di un'identità. Vogliamo, per questo, riportare a un livello umano quello che è la vita di ogni poliziotto. Siamo esseri umani prima di essere poliziotti, non possiamo perderci”.
Cosa si aspetta da oggi, dunque?
“Mi aspetto che l'Amministrazione sia capace di capire che gli strumenti ci sono e che si possono utilizzare anche dentro. Con le dovute cautele, con i protocolli e attuando le giuste procedure, si possono approntare supporti e sostegni per poter prevenire, anziché intervenire quando tutto diventa cura”.
Ascolta l'intervista alla Dott.ssa Palma D'Alessio:
Il quadro normativo
La difficoltà ad affrontare il fenomeno del disagio psicologico trova immediata rispondenza nel quadro normativo, non sempre adeguato a rispondere ai bisogni. Ma considerare le norme previste in caso di diagnosi nueropsichiatrica come un ostacolo sarebbe riduttivo. Come ha, infatti, sottolineato la Dott.ssa D'Alessio, è urgente cambiare il paradigma del fenomeno, cioè passare dalla cura alla prevenzione. Soltanto questo tipo di approccio, infatti, consente di “ri-modellare” le norme già presenti. Come l'articolo 48 del D.P.R del 28 ottobre 1985, che prevede il ritiro del tesserino di riconoscimento e dell'arma già nel caso di sospetta infermità neuro-psichica. Spesso, l'applicazione dell'articolo acuisce il disagio dell'agente che si sente estromesso, se non ostracizzato, da una realtà che per lui ha connotati familiari e non è solo un mero lavoro. Lo sa bene il dott. Fabrizio Ciprani, dirigente medico della Polizia di Stato e Direttore Centrale di Sanità: “Mi sono preso sempre la responsabilità di applicare poche volte l'articolo 48” ha detto, rintracciando il disagio arrecato a un agente. Per questo, è in corso il varo di un art. 48/bis che vada a modificare l'assetto normativo esistente, come la possibilità di rimanere in servizio senza l'arma d'ordinanza: “un provvedimento che va sulla via del cambiamento – ha dichiarato Ciprani – perché dà consapevolezza della propria vulnerabilità“.
Dentro il “male silenzioso”
I diretti testimoni del malessere che vivono gli operartori di Polizia è il personale degli psicologi e psicoterapeuti. In Terris ha intervistato due operatrici nel settore, relatrici del convegno.
La dott.ssa Stefania Borghetti è psicologa psicoterapeuta che lavora assistendo soprattutto poliziotti penitenziari.
Dottoressa, si può parlare di stigma del disagio psichico nelle forze dell’ordine?
“Innanzitutto, questo stigma non riguarda solo le forze dell'ordine, ma è più generale. La popolazione spesso non lo accoglie e non si propone in un’ottica di prevenzione. Questo dato è ancora più forte negli operatori della Polizia perché c'è un’identità che è molto forte, così come la subcultura che vede nel poliziotto come a colui che non deve avere un impatto emotivo rispetto a tutti gli stress con i quali si va a confrontare quotidianamente. Gli agenti si confrontano, molto più di altre professioni, con eventi stressanti che hanno un impatto emotivo: lo possono avere in modo immediato, a lungo termine, oppure possono esserci più eventi che si sommano e portano a uno stress cronico con una serie di conseguenze dal punto di vista psico-somatico e comportamentale”.
Lei parla del burnout…
“Sul burnout la cosa interessante è che, al giorno d’oggi, c’è un cambio di prospettiva. Con il ‘riconoscimento’ da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi questa sindrome è vista diversamente. Sindrome vuol dire che si riconoscono dei sintomi i quali, nel loro cronicizzarsi, possono portare a malattie e psicopatologie vere e proprie. Riconoscerlo è, quindi, importante perché, se prima questo fenomeno era correlato a una difficoltà dell'individuo nella sua vita quotidiana, ora viene relazionato all'ambiente professionale. Tale cambio di prospettiva è suffragato da dati scientifici e va preso in considerazione”.
È, dunque, importante cambiare l’ottica?
“Sì, perché bisogna prevenire l’insorgenza di questi fenomeni e lo si può fare solo se si considera il burnout un problema occupazionale. Quello che manca oggi come dato scientifico è che vengono studiati i sintomi, cosa fare per intervenire, però poco viene fatto per studiare gli interventi risolutivi in ottica preventiva”
Questo implica che è necessario cambiare la cultura personale…
“Sì, aprirsi alla possibilità che ci sono eventi che impattano e fanno parte del ruolo complesso della professione. Dire che quella delle forze armate è una professione complessa non è un demerito, anzi piuttosto il contrario, perché è una professione che ha dei risvolti complicati”.
Rispetto ai suicidi, invece?
“Il suicidio è un aspetto multifattoriale e sarebbe riduttivo presentare il singolo caso dicendo ‘il suicidio è determinato da…’. Con ciò voglio dire che no è mai un unico fattore a entrare in gioco, perché se guardiamo al soggetto in un'ottica bio-psico-sociale, sono tante le determinanti. Però quello che è importante dire è che se anche solo questa determinante può essere dovuta dal tipo di lavoro, dalla struttura dell’organizzazione, che c'è una 'facilità' a mettere in atto alcune azioni perché si è in possesso di un’arma, questo va attenzionato. Bisogna, cioè, pensare a cosa va fatto perché questa parte non vada a impattare sul soggetto per cercare di risolvere il problema”
Ci sono dei contesti più complessi rispetto ad altri?
“Lavorando in ambito penitenziario, io percepisco le difficoltà emotive e il disagio dei poliziotti penitenziari, ma anche degli altri operatori. Non nascondo che anch’io mi trovo ad affrontare alcune di queste difficoltà, solo che io vengo da una cultura psicologica e ho gli strumenti e le strategie che mi consentono di tutelarmi. Eppure, a volte non bastano, perché capita di assistere a scene che ti mettono in pericolo o danno la percezione di esso. A lungo andare, complice un contesto in cui il confronto con i colleghi manca e non c'è un'adeguata accoglienza del fenomeno, questa mancata protezione lascia un segno e un impatto. Ci sono, poi, persone che non ritengono possibile un confronto. C'è, infatti, una tendenza a non parlarne perché, se si parla, si percepisce un invalidamento della propria immagine professionalene. Ma negare i problemi fa sì che poi, da qualche altra parte, escano”.
Ascolta l'intervista alla Dott.ssa Stefania Borghetti, Psicoterapeuta e alla Dott.ssa Giuseppa Lopes, Psicologa:
La dott.ssa Giuseppa Lopes è psicologa e, nella sua attività, assiste diversi operatori della Polizia di Stato con problemi di disagio psicologico.
Dottoressa, perché il disagio psicologico negli operatori delle Forze di Polizia è così complesso?
“Nel disagio che vive un poliziotto va, innanzitutto, considerato il conflitto che si scatena fra il desiderio di intraprendere questa professione e la crisi di questo desiderio. Da tale conflitto, spesso il poliziotto sviluppa un doppio vissuto, perché da una parte il suo ruolo è quello di proteggere degli esseri umani, dall'altra le situazioni conflittuali e traumatiche che affronta nella quotidianità lo possono allontanare dal senso della divisa, e allora quella stessa divisa diventa una protezione, una difesa verso sé stesso. In questo duplice piano può, così, accadere che l'operatore diventi aggressivo e sviluppi un marcato senso di solitudine e di blocco che può sfociare anche in un'aggressione verso sé stesso”.
Come s'interviene in questi casi?
“Quando l'operatore di Polizia chiede aiuto, si applica l'articolo 48: vengono ritirate le manette e il tesserino. Questo è un provvedimento valido se è legato a un processo curativo. Oggi, forse, quello che si deve realizzare è un intervento preventivo che riporti l'operatore di Polizia al desiderio di quella scelta fatta affinché possa vivere tutta la sua realtà non solo profesisonale, ma anche personale. Se questo sostegno preventivo non viene attuato, si rischia il burnout e, in situazioni ancora più complesse, si può arrivare al suicidio”.
Cosa porta della sua esperienza di sostegno?
“Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che gli operatori delle Forze dell'Ordine oggi richiedono un aiuto psicologico per cercare di ritrovare la possibilità di riuscire a garantire la sicurezza anche per i cittadini, non solo per sé stessi”.