Nel giorno del ventiseiesimo anniversario della strage di Via D'Amelio, i giudici della Corte d'Assise di Palermo del processo sulla trattativa Stato-mafia aggiungono ulteriori tasselli a una sentenza, quella del Borsellino quater, che di per sé ha già ridisegnato la storia giudiziaria seguita all'attentato che uccise il giudice Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Per i magistrati, che oggi hanno depositato le 5252 pagine di motivazioni della sentenza dello scorso 20 aprile, “l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del dottore Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo – e in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio”.
L'accelerazione
E, nel dossier, i giudici insistono: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla `trattativa´ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino”. Un'accelerazione effettuata, scrivono, “con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.
Il superamento
Secondo i magistrati, gli imputati ebbero un ruolo fondamentale per stimolare “il superamento del muro contro muro e quindi l'indicazione, da parte dei vertici mafiosi, delle condizioni per tale superamento”. In tal modo, “si sono inevitabilmente rappresentati (ciononostante agendo) non soltanto il vantaggio che sarebbe potuto derivare per coloro che si temeva potessero essere vittime della vendetta mafiosa, ma altresì il vantaggio che certamente sarebbe in ogni caso derivato per Cosa nostra nel momento in cui fosse venuta meno la contrapposizione frontale la forte azione repressiva dello Stato, già culminata nelle persone pesanti pene inflitte all'esito del maxiprocesso e più recentemente dopo la strage di Capaci nelle misure anche di rigore carcerario contenuta nel decreto legge adottato dal governo l'8 giugno 1992″.