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Masai, il tramonto del popolo nomade

Un altro popolo millenario sembra destinato a percorrere la strada dell'estinzione. Come le tribù pellerossa, un tempo padrone indiscusse nel Nord America e oggi ridotte a poche unità, rinchiuse nelle riserve a cui l'espansione dell'uomo bianco venuto da ovest le ha costrette. E' il prezzo del progresso, riscosso sulla pelle dei più deboli. Del cinico sfruttamento di risorse e territori, in spregio a culture e tradizioni secolari. 

Minacciati

Nel silenzio della comunità internazionale la stessa sorte sta toccando ai Masai, popolo nomade dedito alla pastorizia e all'agricoltura che si muove lungo gli altopiani situati fra Kenya e Tanzania. I loro insediamenti sono un'attrazione irrinunciabile per le centinaia di viaggiatori che ogni anno visitano quelle terre. Eppure, ironia della sorte, proprio il turismo (assieme alla caccia e all'estensione delle aree protette) si sta rivelando per loro una minaccia. 

Cacciati

A denunciare le intimidazioni subite è stata una ricerca ricerca pubblicata dall'Oakland Institute, think-tank specializzato in conflitti fondiari. Il rapporto è il risultato di tre anni di studi realizzati nella zona di Loliondo, a nord-est del parco del Serengeti. La regione settentrionale della Tanzania, famosa per la ricchezza della fauna selvatica, è visitata ogni anno da migliaia di turisti e cacciatori: una presenza che entra in conflitto diretto con le attività quotidiane dei Masai. Per questo popolo, ha spiegato la fondatrice e direttrice dell'Oakland Institute Anuradha Mittal, “l'accesso alla terra ancestrale (cioè quella che per secoli hanno abitato ndr) è sempre più limitato sin dall'epoca coloniale, con un'ulteriore pressione esercitata dal turismo e dalla creazione di aree protette, di zone riservate ai safari controllate dallo Stato e da società private”.

Paura

Si è, in sostanza, innescato un processo di espropriazione fondiaria che sta causando, spiega ancora Mittal, “carestia, malattie e un clima diffuso di paura nei villaggi” dovuto alle minacce e alle brutalità subite. Nell'ultimo triennio, aggiunge il rapporto, oltre 180 “boma” (le case tradizionali dei Masai) sono state bruciate, migliaia di persone sono diventate sfollate e parte del bestiame è morto o scomparso.

Processi

Ulteriori elementi aggravanti, sottolinea l'Oakland Institute, sono la mancata delimitazione dei terreni e le lacune del diritto fondiario che portano i vari contendenti a lunghe battaglie legali. Due i processi più clamorosi, in corso da anni. Il primo vede contrapposti alcuni villaggi Masai e la Tanzania Conservation Limited (Tcl), azienda specializzata in ecoturismo di proprietà del tour operator americano Thomson Safaris. Nel secondo contenzioso, invece, gli autoctoni stanno sfidando la Ortello Business Corporation (Obc), controllata dagli Emirati Arabi Uniti, che utilizza 150 mila ettari per battute di caccia. “In realtà la problematica del conflitto per l'accesso alle terre è una sfida mondiale – chiosa Mittal -. Non si tratta di vietare il turismo, ma qualunque provvedimento viene preso, anche a nome della tutela dell'ambiente, deve essere attuato nel rispetto delle popolazioni ancestrali“.

L'appello

L'Oakland Institute sostiene di non aver mai avuto risposte alle domande trasmesse al ministero del Turismo di Dar es Salaam e ora chiede al governo tanzaniano di “far fermare quanto prima arresti e violenze” e alle autorità giudiziarie di “promuovere soluzioni win win“, ad esempio l'assegnazione di certificati di diritti consuetudinari, un sistema di accesso ai terreni di cui alcune comunità hanno già usufruito nel paese dell'Africa orientale. 

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