Erano trascorsi poco più di quattro anni dalle carneficine di Hiroshima e Nagasaki quando, la mattina del 29 agosto 1949, dal sito di Semipalatinsk, in quello che oggi è il Kazakistan, si sollevò per la prima volta nei cieli sovietici il sinistro fungo dell'atomica. Fu un successo perché il test riuscì, ascrivendo l'Urss al rango di potenza nucleare, appena tre mesi dopo la nascita della Nato e l'adozione di una futura strategia di vigilanza sulle dotazioni atomiche. Ma l'esperimento kazako rese chiari anche un paio di concetti che, di lì agli anni successivi, avrebbero tenuto in scacco l'umanità intera: che una guerra nucleare ora era possibile e che, con essa, anche lo sterminio totale non era più un timore esagerato. La Pervaja molnija (il Primo raggio) russa rispondeva, praticamente con la stessa propagazione di megatoni, alle due creazioni statunitensi che per intensità e violenza avevano messo in ginocchio il Giappone, ponendo fine alla Seconda guerra mondiale.
Dopo la guerra
Solo quelle due volte l'arma atomica sarebbe stata utilizzata per fini bellici. Non che i test atomici, nel periodo che va dal dopoguerra a oggi, abbiano fatto meno paura, specie nel periodo immediatamente successivo al Secondo conflitto mondiale, quando la strategia della tensione venne adottata proprio in base alla dotazione rispettiva dei due blocchi della bomba, impiegata come “arma di deterrenza”, in grado di annientare ma, paradossalmente, anche di mantenere gli equilibri sotto la minaccia del suo utilizzo. Teorie da Dottor Stranamore, con lo spettro dell'atomica che diviene parte della quotidianità e lo sviluppo tecnologico che prosegue di pari passo alla rispettiva crescita delle superpotenze. Questo, almeno, fino alla disgregazione dell'Unione sovietica. Da allora, l'autorità russa ha preso le redini di un territorio immenso che, nella zona di Archangelsk e di Murmansk, si presta alla sperimentazione di testate balistiche. Ed è in questo contesto che, probabilmente, va letto l'incidente di Nenoksa dell'8 agosto scorso: sette morti, alcuni feriti e un velo quasi di omertà sceso su cause ed effetti, la cui rivelazione è stata più ad appannaggio delle ipotesi dei media e degli analisti che dell'autorità russa. Di certo, si sa quel poco che è stato fatto trapelare: un test andato male, non un incidente in un deposito di armi, come inizialmente era stato ipotizzato, né un incidente nucleare nel vero senso del termine. Perlomeno stando alle dichiarazioni ufficiali.
L'incidente
Altrettanto certa, la crescita del livello di radiazioni nei dintorni di Nenoksa, a Severodvinsk in particolare, città di 200 mila anime che ha fatto i conti con l'innalzamento del livello di radioattività di circa 16 volte sopra il livello standard. Parecchio al di sotto dello step considerato come livello di rischio e, comunque, nemmeno paragonabile alla pioggia di radiazioni sprigionata dall'incidente di Chernobyl dell'86. Analisi affidabile perché realizzata scandagliando la natura degli isotopi rilasciati nell'aria dalla deflagrazione: “I livelli di radioattività e i tipi di isotopi rilevati sia dalle autorità russe che da quelle internazionali deputate al controllo – ha spiegato a In Terris il dottor Marco Di Liddo, Senior Analyst Ce.S.I. responsabile desk Russia e Balcani -, non sono ascrivibili a un incidente di un reattore per la produzione di energia, perché in quel caso sarebbero stati rilasciati altri tipi di isotopi. Quelli osservati fanno pensare a un'attività di tipo bellico, perché derivano da alcune sostanze (plutonio e uranio arricchito) che non vengono usate per i reattori civili”. La soluzione all'arcano risiederebbe non in un test atomico standard, quanto più nella sperimentazione dei Burevestnik, missili a lunga gittata frutto di una tecnologia che, per dare l'idea, gli americani testarono e abbandonarono già negli anni '70, poiché ritenuta più prodiga di rischi che di buoni risultati: “Si tratta di una testata che, per raggiungere una velocità maggiore, beneficia di un motore a propulsione nucleare… I russi hanno deciso di proseguire lo studio di questa fonte di combustione perché motori di questo tipo servirebbero a creare vettori così veloci da evitare i sistemi di difesa missilistica degli avversari. Questo è molto importante, perché l'utilizzo dell'arma nucleare è diventato sempre più centrale nella dottrina militare”.
Poca chiarezza
Uno scenario per nulla inusuale lungo la rotta via terra del Passaggio a Nord-Est, di cui Nenoksa rappresenta solo uno dei casi-limite direttamente connessi ad attività di testaggio top-secret in un quadrante di territorio estremamente vasto ma, grossomodo, compreso nella zona di Archangelsk e Murmansk. Pur con le debite proporzioni, se l'incidente dell'8 agosto non ricorda Chernobyl sul piano degli isotopi rilasciati, lo avvicina per le modalità di trattamento da parte delle autorità russe, con informazioni sommarie, piani di evacuazione annunciati e poi rientrati con spiegazioni limitate, mentre i 200 mila cittadini di Severodvinsk correvano in massa a far scorta di iodio: “Trattandosi di un tema sensibile, quello delle armi nucleari è coperto dal massimo livello di segretezza, proprio per l'importanza degli arsenali, che non devono essere condivisi né accessibili. Quindi quest'obbligo spinge le autorità russe, già di per sé abituate a trattare in modo poco trasparente con i media, a far cadere un velo di omertà su tutto quello che succede. Un incidente nucleare crea panico per i cittadini, per la comunità internazionale e intacca il prestigio di un Paese. E questo vale ancor di più per la Russia, che vive una sorta di fobia legata al timore di una sottostima da parte degli altri attori internazionali”.
La nuova strategia russa
In sostanza, in un momento storico in cui l'ipotesi di un impiego del nucleare, perlomeno per quanto concerne i Paesi Nato, resta chiusa a doppia mandata nel cassetto, la strategia atomica di Mosca qualche preoccupazione la desta, e non solo per il rischio di nuove Nenoksa: “Con la modifica della dottrina sull'atomico, Mosca considera l'utilizzo di una testata non solo come deterrenza ma anche come 'teatro': laddove l'esercito russo o l'interesse nazionale si trovasse minacciato concretamente da un'operazione di tipo convenzionale, non è da escludere l'utilizzo dell'arma nucleare come garanzia ultima dell'integrità territoriale. Ovviamente questa evoluzione fa paura, specie in virtù della natura più cauta della Nato”. Una chiave di lettura, sarebbe il rango stesso di Mosca sullo scacchiere delle potenze internazionali: “I russi – ha concluso il dottor Di Liddo – scontano una palese inferiorità convenzionale nei confronti dei Paesi Nato e sanno che, in caso di conflitto, l'unico possibile equilibratore sarebbe la minaccia dell'utilizzo dell'arma atomica, non solo di tipo balistico ma anche di tipo tattico, montata su alcuni missili con gittata inferiore a quella di un missile intercontinentale”. Uno scenario non lontano da quello kubrickiano.