Non solo Hong Kong, gli studenti scendono in piazza anche in Birmania e minacciano una protesta su scala nazionale. In particolare chiedono di emendare la legge quadro sull’educazione, che proibisce ai giovani delle superiori e università. La settimana scorsa ha visto quattro giorni consecutivi di marce e manifestazioni per le vie di Yangon, capitale commerciale del Myanmar, in barba ai divieti imposti dall’autorità. I leader studenteschi hanno concesso due mesi al governo per rispondere alle loro richieste. Durante le dimostrazioni di piazza, ragazzi e ragazze hanno esibito a più riprese stendardi con l’immagine di un pavone pronto al combattimento, simbolo della “resistenza” fra gli attivisti del Paese asiatico.
Il sistema educativo birmano è ancora legato alle logiche del regime militare. Fra i punti al centro della controversia, c’è soprattutto la possibilità – finora negata – di utilizzare le lingue locali e i dialetti negli Stati in cui vivono le minoranze etniche, unita a quella di formare sindacati e movimenti di rappresentanza studenteschi.
Dal 2011, da quando cioè la giunta ha formalmente concesso il trasferimento dei poteri il Myanmar è impegnato in una serie di riforme politiche e istituzionali in chiave democratica. Tuttavia, questo processo di cambiamento – che ha portato anche alla parziale cancellazione delle sanzioni occidentali – ha subìto un brusco rallentamento. Ancora oggi il leader dell’opposizione democratica, il premio nobel per la pace Aung San Su Kyi non può correre per le presidenziali a causa di un articolo della Costituzione che impedisce l’accesso alla carica a chi ha coniuge o figli stranieri. E solo ieri le forze armate hanno fatto sapere di non avere intenzione di modificarlo: “La Costituzione non è scritta per una persona sola, ma per l’avvenire di tutti – ha dichiarato il colonnello e deputato al parlamento Htay Naing -Sarebbe inquietante se i figli del presidente del nostro Paese fossero stranieri”.