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Dazi Usa: da dove ha origine la mossa di Washington

Dopo Canada, Messico e Cina è arrivata l’ora per l’Europa di fronteggiare i dazi che l’amministrazione Trump ha decretato per proteggere l’economia statunitense e spingere la crescita interna. Da Bruxelles dichiarano che l’Unione sia pronta a rispondere ma qualcosa non torna. Facciamo un passo indietro, però, per capire da dove abbia origine la mossa di Washington verso il Vecchio continente.

Gli USA, nonostante una certa narrazione di alcuni, rappresentano la prima economia globale che ha chiuso il 2024 con Pil si oltre 29’000mld di dollari, che è pari a oltre un quarto del PIL dell’intero pianeta e superiore di oltre il 50% di quello di tutta l’Unione Europea e di circa il 64% superiore a quello della Cina, ciononostante questi riscontrano un deficit commerciale verso l’UE di circa 54mld di dollari (oltre 162mld usd di deficit sull’importazione di beni contro un surplus di oltre 108mld nell’export di servizi) metallurgico, considerato strategico, lo squilibrio è abbastanza marcato.

È lì, infatti, che si concentra la politica protezionista americana con l’apposizione di dazi all’importazione del 25% su acciaio e alluminio, sul resto invece rimarranno le tariffe fissate ancora durante la presidenza Obama. A fronte di questo annuncio, con le nuove tariffe che scatteranno solo il 12 marzo, Bruxelles dichiara di essere pronta a reagire ipotizzando dei contro-dazi su burro d’arachidi, motociclette e whiskey!

Usando un’espressione inglese si potrebbe dire “well done”, reagire a una politica commerciale restrittiva su un settore primario a livello industriale con una risposta su beni non certo essenziali o strategici, come le Harley Davidson, non sembrerebbe sicuramente una mossa astuta anche se, a voler ben vedere, la questione è molto più sottile.

Come già nel corso del suo scorso mandato, Donald Trump non mira, credibilmente, a bloccare l’importazione di beni da un partner commerciale e politico importante come l’Europa ma a aprire i tavoli per rinegoziare gli accordi bilaterali, cosa che tutte le forze politiche al governo nel continente non negheranno per evitare ripercussioni sulle esportazioni verso i 50 stati oltreoceano, probabilmente spostando i contrappesi su altri settori commerciali che, se da un lato avvantaggeranno gli USA, certamente non danneggeranno gli stati UE, salvo che nella fantasia di qualche frangia massimalista, perché un accordo di libero scambio, nel lungo periodo, porta miglioramenti a tutte le parti in gioco, esattamente come la storia ha sempre mostrato. Ma se questi nuovi negoziati fallissero cosa potrebbe succedere all’Italia? Per rispondere alla domanda occorre analizzare quali siano effettivamente i rapporti commerciali con l’altra sponda dell’Atlantico.

Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia sia un Paese votato all’export, a livello assoluto essa rappresenta il sesto esportatore a livello mondiale che diventa il quinto, se si escludessero i Paesi Bassi che sono più che altro una zona di interscambio portuale, e il quarto (superando il Giappone) se non si considerasse il settore automobilistico; a livello complessivo nel 2024 il valore dell’export (depurato dal settore automotive) ha raggiunto i 677mld usd pari a circa un terzo del prodotto interno lordo.

Verso gli USA, nel corso degli ultimi 10 anni, il valore delle merci esportate ha quasi raggiunto la quota dei 70mld, portando Washington a divenire il secondo partner commerciale dopo la Germania. Il dato è importante e indica come il 10% di beni e servizi italiani sia diretto oltreoceano e, su questo, una nuova politica di dazi sicuramente potrebbe impensierire sensibilmente tutto il sistema economico ma bisogna considerare, in primis, le categorie merceologiche verso cui questi dazi saranno rivolti.

Scomponendo il dato aggregato si nota che l’export italiano si compone principalmente prodotti alimentari, abbigliamento, gioielli e ottica, chimica, farmaceutici semilavorati metallici e macchinari; poiché i dazi sarebbero applicati sulle importazioni dirette di acciaio e alluminio questi andrebbero a impattare su circa 2mld di prodotti in metallo, cioè sul 2,9% delle esportazioni verso gli Stati Uniti e sullo 0,3% dell’export totale che, numeri alla mano, non si tratta certo di numeri allarmanti a livello di sistema. Questo sempre che il ventaglio delle barriere doganali americane non si ampli su altri settori, ovviamente, ma allo stato attuale la ventilata nuova tariffazione delle importazioni statunitensi sarebbero perfettamente sopportabili anche dai settori economici coinvolti.

Come già suggerito in precedenza, però, una politica di dazi non è mai una cosa positiva, per entrambe le parti in gioco, checché ne dica una certa propaganda, perché se da un lato esportare merci diventerebbe più costoso anche gli acquirenti del paese che attui queste misure protezionistiche ne avrebbero uno svantaggio dovuto all’aumento dei prezzi che non è assolutamente detto possa essere ovviato dalla produzione interna, né a livello di costi né a livello qualitativo.

Al di là di queste considerazioni, però, la storia passata dice che le minacce dell’attuale POTUS siano funzionali alla stipula di nuovi accordi commerciali e se, ad esempio, come ipotizza ISPI l’UE riuscisse a negoziare una revoca dei dazi in concambio di una maggiore importazione di GNL e di armi si prefigurerebbe una strategia win-win con gli USA che diminuirebbero il deficit commerciale con l’Europa e quest’ultima che rafforzerebbe la sua sicurezza energetica e difensiva (ricordando, poi, che molti fornitori di armi statunitensi siano, in effetti, delle filiali di aziende europee che producono su suolo americano per poter rifornire le forze armate e dell’ordine locali, come l’italiana Beretta).

Dal lato italiano, poi, bisogna anche ricordare lo stretto rapporto che l’attuale governo ha con Trump e molti suoi collaboratori, tano che in un’intervista a Le Parisien su domanda diretta sulla possibile esenzione dell’Italia dai dazi doganali il Presidente ha risposto “Beh, a me Giorgia Meloni piace molto. Vedremo cosa succede” facendo intendere che potrebbe esserci un trattamento differenziato per il Bel Paese rispetto agli altri partner europei. Che dire a questo punto? La stessa cosa che ha riportato the Donald nella sua risposta indicata poc’anzi: vedremo cosa succede.

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