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Così i videogames “conquistano” le Olimpiadi

Alla fine di ottobre il Comitato olimpico internazionale riunito a Losanna ha in qualche modo “sdoganato” i videogiochi, dichiarando che gli e-sport possono essere considerati discipline sportive e aprendo a un loro inserimento nel programma olimpico, magari a livello dimostrativo, dai Giochi di Parigi 2024. Per conoscere meglio questo mondo, In Terris ne ha parlato con l’ingegner Domenico Pontari, amministratore di “The Tower”, una società sportiva di e-sport. Lo abbiamo incontrato nella sede di The Tower, nel quartiere romano di Centocelle, dove ci mostra la sala Lan: 15 postazioni “ben carrozzate”, ovvero dotate di tutta la tecnologia per giocare: hard disk doppi, cuffie fatte apposta per un’ambientazione immersiva, microfono, fondamentale per restare in contatto con gli altri giocatori, rete internet particolarmente veloce per il “real time”, tastiere, mouse e così via.

“La sala Lan è come un campo da calcetto – spiega Pontari – Come un campo puoi usarlo per giocare a calcetto ma anche per fare esercizi o partite di paintball, così i pc hanno giochi preinstallati standard con parte e-sport integrata. Alcuni videogames non sono ideati per essere giocati in maniera competitiva, altri sì e noi mettiamo a disposizione videogames predisposti per questo, come League of Legends,  Overwatch o Dota 2, per citare i più noti”.

Quali videogames potrebbero diventare olimpici?

“Il campo si restringe parecchio. Il competitivo deve avere alcuni requisiti. Intanto deve essere possibile accedere a tutti i livelli, a tutte le caratteristiche, a tutti i potenziamenti senza dover pagare, mentre altri sono fatti in modo tale che devi acquistare per poter andare avanti, a meno di non metterci tempi infiniti per progredire. Nei competitivi partono tutti allo stesso livello. Gli acquisti possibili sono di tipo grafico, le cosiddette “skin”, ad esempio per dare una determinata veste al tuo personaggio, ma non influiscono sulla performance del giocatore. Recentemente la Riot Games, società produttrice americana, ha dichiarato che con gli incassi di una determinata “skin” di un personaggio di League of Legends ha finanziato il montepremi dei mondiali mentre una parte, circa 2 milioni, sono andati in beneficienza. Mi sembra una bella notizia”.

Quindi il giro di interessi è enorme.

“Certo. Per esempio il ricco montepremi dell’International di Dota2, prodotto dalla Valve, il torneo più famoso a livello internazionale di questo videogame, è stato interamente composto dai soldi degli aggiornamenti di skin, oltre 22 milioni”.

Chi è il giocatore tipo?

“Appartiene sicuramente a una fascia giovane; esistono delle età minime, ma tendenzialmente fra 13 e 35 anni. Il videogiocatore che punta a fare carriera sul ‘competitive’ è uno molto appassionato ma non è il normale utente. La maggioranza dei giocatori che usano questi titoli non ci giocano con l’idea di farne una professione. Un po’ come avviene in Italia nel calcio: non è che perché gioco in Prima Categoria penso che il mio lavoro sarà fare il calciatore. Quindi la maggior parte della gente lo fa a livello amatoriale, con le stesse motivazioni per cui fa sport: allenamenti due volte alla settimana, partita la domenica ma non pensa di diventare Totti… tutti ragazzi normali”.

Mediamente quanto tempo passano a giocare?

“Dipende. Prendiamo a modello League of Legends: in Italia esistono campionati di Lega Prima e Lega Seconda organizzati da Gec (Giochi elettronici competitivi, un po’ la federazione degli e-sport). Come The Tower abbiamo una squadra di Lega II i cui componenti si ‘vedono’ almeno due volte alla settimana in team, due o tre ore, più la partita. Spesso per poter arrivare a buoni livelli servono allenamenti tutti i giorni, un paio d’ore. Come in uno sport: se vuoi diventare un buon nuotatore a livello agonistico devi andare tutti i giorni in piscina. Tutti i componenti del mio team, però, lavorano o studiano. A LoL si gioca in 5, la nostra squadra ha 7 giocatori”.

Ma non c’è il pericolo che diventi una cosa da nerd, negativa sul piano educativo e della socializzazione?

“Se parliamo dei videogiochi in generale il rischio c’è. Ma come il vino: non c’è il pericolo di abusarne? Senza dubbio, ci sono un sacco di alcolizzati nel mondo. Quindi è un problema a prescindere. Diversa è la prospettiva dal punto di vista e-sportivo. A livello italiano abbiamo poca professionalità. Per i team che competono a livello mondiale c’è questo pericolo ma penso sia ristretto soprattutto all’Estremo Oriente, in particolare ai coreani, in parte ai giapponesi. Ma è un problema di mentalità. Ad esempio devono fare i conti con il cosiddetto bornout a livello e-sportivo, vale a dire il rifiuto a 23-24 anni di giocatori che non vogliono più saperne di fare competizioni perché si allenano anche 12 ore al giorno. Lì il problema è diverso da quello che abbiamo in Italia. In quei Paesi non hanno la cultura di equilibrio che abbiamo noi. E siccome i più forti stanno lì, c’è il rischio che si guardi a loro per emularli. Tra l’altro, anche se ne hai fatto un lavoro, sono convinto che non è vero che se ti alleni 12 ore al giorno sei necessariamente più forte di uno che si allena ‘solo’ 8. Che non significa stare tutto il tempo al pc, anzi. E normalmente non lo fanno. Però è chiaro che passano molto tempo davanti allo schermo”.

E in Italia?

“Abbiamo un altro tipo di problema. Ci sono pochissimi giocatori professionisti, dove per professionista intendo uno che riesce a vivere con i videogames. Sempre restando a League of Legends è diventato famoso ‘Jizuke’ che però gioca nei Giants, che è una squadra spagnola. Il che fa capire che per stare ad alto livello è dovuto andare all’estero. Ed è entrato negli Lcs europei, il campionato organizzato dalla Riot per i team europei più forti. Abbiamo pochissimi players che riescono a vivere di questo. E c’è carenza di figure professionali. Spesso i coach sono semplicemente ex giocatori senza una formazione specifica. Un bel progetto che abbiamo in mente, visto che abbiamo una palestra a disposizione, è quello di realizzare una scuola di formazione alla parte e-sportiva, un po’ come una scuola calcio, con esercizi fisici dedicati, che chiaramente sono di coordinamento oculo-motorio, non certo di potenziamento muscolare. Però servono molto, sono propedeutici. Poi vogliamo affiancare ai giocatori un mental coach. Alcuni dicono che uno dei motivi per cui l’Italia è stata eliminata dai Mondiali di calcio è stata proprio l’inadeguata preparazione dal punto di vista mentale. Forse è esagerato però dal punto di vista tecnico l’Italia era senza dubbio superiore alla Svezia… E’ un tema molto importante perché rispetto ad altre attività sportive molto spesso i team che si vengono a creare nel nostro settore, almeno in Italia, sono sparsi sul territorio. Solo alcune finali di competizioni si svolgono ‘in presenza’, cioè con le squadre fisicamente presenti in uno stesso luogo. Per esempio nel nostro team al momento ci sono tre romani, gli altri partecipano dal Nord al Sud. Queste dinamiche sono più difficili da gestire e spesso portano alla fine di una squadra: un mental coach favorisce queste relazioni a distanza”.

Come funziona l’adesione al Coni?

“Per far parte di Gec devi essere una Associazione sportiva dilettantistica o una Società sportiva dilettantistica; e Gec è un settore di Asi, Associazioni sportive italiane, affiliata al Coni”.

Alle Olimpiadi non dovrebbero comunque trovare spazio gli “sparatutto”. Che ne pensa?

“Toglie effettivamente la possibilità a diversi titoli di partecipare ma per come la vedo io sono le Olimpiadi che hanno bisogno degli e-sport e non viceversa. Gli e-sport funzionano già per conto loro. Parliamo di montepremi milionari con stadi pieni di gente, senza contare le persone che assistono in streaming: per League of Legends si parla di 2 milioni di spettatori. Il Comitato olimpico si era già pronunciato negativamente anni fa, ora ha cambiato idea (attenzione: non ha detto che diventeranno disciplina olimpica, ma semplicemente che stanno valutando l’opportunità). A mio parere è perché le Olimpiadi stanno perdendo appeal per un pubblico giovane mentre gli e-sport stanno avendo un boom enorme. Penso che questa apertura sia mossa più da motivi economici e di spettatori che da motivazioni ‘teoriche’”.

Ma i videogames si possano considerare sport, con giocatori seduti davanti a un computer? Il presidente del Cio Bach è contrario…

“Se la carabina è uno sport e si spara (e non capisco perché gli sparatutto non dovrebbero essere ammessi alle Olimpiadi), secondo me possono esserlo anche i videogiochi. I team che giocano a livello pro fanno una preparazione atletica, basta vedere ad esempio i video degli Skt, una delle squadre più famose. Per questo nel nostro progetto di scuola è prevista una parte in palestra, finalizzata a migliorare postura, coordinamento, riflessi e così via. Senza contare che se parliamo di videogame in squadra è fondamentale l’azione coordinata tra giocatori. Quindi la mia risposta è sì. Inoltre, considerarli come sport potrebbe accelerare una strutturazione migliore dal punto di vista dei ruoli e delle responsabilità del settore. Se non dovesse essere così non sarebbe in ogni caso un problema perché questo mondo sta andando avanti senza alcun riconoscimento formale particolare. La vera domanda è: che tipo di formalizzazione darle? La veste sportiva a mio avviso è quella più adatta”.

C’è il rischio doping negli e-sport?

“Purtroppo sì, come c’è quello delle scommesse: diversi enti sono già stati multati per aver truccato i risultati in base alle scommesse che erano state fatte. Come ci si difende? Come in ogni altro sport. L’onestà è un valore universale”.

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