Bambini e salute, un binomio sempre delicato da raccontare. Facilmente si può prestare a una banale retorica, se non si trovano i giusti ingredienti e si mescolano nel modo adatto. Questa è stata la sfida che si è trovato ad affrontare il giovane regista capitolino Alessandro Guida: far passare dalle pagine di un racconto ai fotogrammi di una pellicola la storia di un gruppo di ragazzini malati di emofilia in vacanza al campo estivo. E per vincerla sono serviti intuizione e lavoro di gruppo perché il cinema, secondo Guida, “è l’arte più collettiva che esiste”.
Com’è stata l’esperienza di presentare il corto al Venezia77?
“Per me non si è trattato di una prima volta, anni fa (2013 – ndr) sono stato in concorso nella sezione Orizzonti con il film ‘Il terzo tempo’. Devo dire che nonostante il Covid il festival è stato comunque ben organizzato, con un ottimo programma e soprattutto ho visto una partecipazione importante. Certo era più rarefatta, senza le file a cui eravamo abituati per entrare in una sala. Sembrava quasi di essere a un festival tedesco. Il nostro cortometraggio era un tipo di progetto con minor visibilità rispetto ai film, ma abbiamo ricevuto ugualmente un feedback positivo. Credo lo abbia reso appetibile il binomio tra un tema importante, come quello della salute, e una storia d’avventura, con cast giovane. Per fare qualche nome, Neva Leoni e Guglielmo Poggi tra i ‘grandi’, giovani ma già famosi, e più piccoli come Christian Monaldi (già apparso nella serie televisiva ‘Rosy Abate’ e nel film ‘Modalità aereo’ – ndr), che ha 12 anni e Alessio Di Domenicantonio, che ha interpretato Lucignolo nel ‘Pinocchio’ di Matteo Garrone”.
Com’è nata l’idea di questo corto?
“Io sono stato coinvolto da produzione, MP Film e Medusa. Il progetto iniziale era di narrare una storia ispirata al racconto ‘Guardami! Sto volando’ di Alessandro Marchello, il vincitore della terza edizione del concorso letterario ‘A fianco del coraggio’ nel 2019. Il tema era quello dei caregiver (termine che può indicare la figura dell’infermiere, dell’assistente o ancora dell’accompagnatore di un soggetto debole – ndr) maschio. Quando l’ho letto sono rimasto colpito dalla maniera poetica con cui descrive l’esperienza di alcuni ragazzi che vivono la loro prima vacanza lontano da casa e scoprono di avere l’emofilia, patologia poco conosciuta e non sempre grave, ma che crea delle difficoltà. I pazienti emofilici conducono una di vita più ovattata perché le famiglie tendono a proteggerli di più e loro evitano attività che possono rappresentare un rischio. Le sceneggiature del corto, Marco Borromei, autore di di Skam Italia (teen drama di grande successo nato in Norvegia e andato in onda su Netflix – ndr), ha detto che voleva mantenere la struttura del racconto con la malattia che entra come un segreto nella storia, come in un giallo. Vediamo i protagonisti avere timore nel fare cose che gli altri fanno tranquillamente e non capiamo perché fino a quando la malattia viene nominata, ma si tratta solo di un accenno. Non abbiamo voluto seguire un approccio didattico, ma lavorato per far nascere l’interesse in chi guarda. Sensibilizzare su un tema per me vuol dire colpire ed emozionare con una storia, in seguito poi ciascuno interessato a conoscere gli elementi della patologia farà ricerche da sé”.
Cosa si può raccontare, su pellicola, della figura dell’educatore? Ritorna già in altre tue opere come “Il terzo tempo” (2013) e “Pupone” (2019)
“Credo che questo lavoro mi sia stato proposto perché hanno visto come racconto questo mondo, queste figure che lavorando coi giovani costruiscono la società futura. Insomma, hanno un ruolo centrale. A me piace quando si raccontano personaggi in modo tridimensionale, mostrando anche i difetti. Io lavoro così: in ‘Pupone’ gli educatori non sono degli eroi buonissimi, bensì si tratta di persone con le loro contraddizioni. Sono proprio questi gli elementi che avvicinano il pubblico a questo mondo. Io racconto i loro dubbi, le loro difficoltà, la loro consapevolezza di aver fatto una scelta lavorativa che magari sotto il profilo economico non gli conviene e il senso di solitudine quando devono affrontare delle sfide senza sentire il supporto di Stato, della società o, a volte, nemmeno dell’associazione di cui fanno parte. Ma devono in ogni caso fare da sé lo scatto in avanti. La loro missione è importante e va raccontata, bisogna mostrare quel passaggio di informazioni ed esperienze da una generazione a un’altra, quella più giovane. Il passaggio del testimone è, per me, il mestiere più antico del mondo. Nel cinema italiano manca la figura del mentore, una guida per il/la protagonista nell’età giovanile, che è invece molto presente in quello angloamericano”.
I personaggi di Viviana (Neva Leoni) e Mattia (Guglielmo Poggi) sembrano veramente l’una l’opposto dell’altro. Questa differenziazione cosa rappresenta?
“Viviana è prudente, mi ricorda mia madre. E’ una persona che ha più difficoltà a lasciare liberi i ragazzi e vorrebbe fargli fare solo attività sicure. Per Mattia invece ci siamo ispirati al protagonista di ‘Patch Adams’ con Robin Williams. Per lui, Mattia, i ragazzi affetti dalla patologia hanno dentro di sé un gran coraggio e questo li accomuna ai supereroi, che non solo tali per i poteri che hanno ma per il coraggio di usarli nel modo giusto. La lezione che vuole insegnarli è che non devono avere paura”.
Hai conosciuto Alessandro Marchello e hai avuto modo di confrontarti con la sua doppia esperienza, paziente emofilico ed educatore?
“Nella fase di scrittura abbiamo seguito le parole del suo racconto, ci siamo conosciuti solamente dopo e ho scoperto tante cose di lui, che per esempio è un autore teatrale, oltre ad essere una persona molto empatica e piena di energia. Sarebbe stato bello incontrarci prima. Mi ha raccontato di essere emofiliaco e che fa quello che fa perché la sua famiglia non ha avuto paura di farlo stare lontano da casa, né provava imbarazzo per la sua condizione. Questo quando negli anni Sessanta e Settanta ancora non si diceva apertamente che un bambino aveva questa malattia e gli veniva impedito di giocare. Alessandro è comunque soddisfatto perché ritiene che non esserci visti ci ha consentito di trovare una chiave di lettura e un punto di vista diversi dai suoi. L’idea dei supereroi non gli era venuta in mente ma la ritiene un elemento fortissimo e subito chiaro al pubblico giovane che lo guarda”.
Com’è stato lavorare con degli attori giovanissimi?
“Amo la parte del casting, con i miei collaboratori ci ‘perdiamo’ tanto tempo. Grazie a MP Film ho tanto spazio per fare tanti provini e tante prove. In ‘Pupone’ ne abbiamo fatto anche nella casa famiglia. Ne ‘I miei supereroi’ abbiamo fatto molti tanti provini per i personaggi dei bambini, gli educatori li avevo praticamente già scelti perché sapevo che loro due avevano quell’anima che cercavo. I quattro bambini sono preparatissimi e non subiscono l’impatto del set, sono già esperti della macchina. Li ha comunque colpiti il mio modo di lavorare perché in questi prodotti lascio molto spazio all’improvvisazione. Questo metodo li ha molto interessati perché loro vengono da realtà dove si segue un copione più preciso. In aggiunta, erano molto stimolati da Guglielmo che cercava di fargli tirare fuori qualche cosa di diverso dal solito”.
C’è un’espressione o una battuta che è nata all’improvviso sul set, mentre stavate girando una scena?
“Tante battute sono nate durante le prove. Io filmo quando proviamo una scena, partiamo da quello che c’è scritto sul copione e lavoriamo sul linguaggio. Per esempio, nella sceneggiatura c’era scritto “fenomeno del nascondino” che Alessio ha trasformato in ‘il Messi del nascondino’, perché è appassionato di calcio. Quando gli attori vanno d’accordo si creano le basi migliori per lavorare e anche il fatto che la troupe fosse composta ragazzi molto giovani, pur sempre esperti, questo può avergli trasmesso dato ancora maggiore confidenza”.
I personaggi parlano con una netta calata ‘romanesca’, si tratta di una scelta linguistica precisa?
“Sì, una scelta coerente con il racconto di Alessandro perché ci ha detto che tanti dei ragazzi che frequentano i suoi campi estivi vengono proprio dalla capitale”.
Nel corto la fotografia ha uno stile che richiama le vecchie foto degli album dei ricordi. I colori somigliano a quelli delle riprese anni Settanta/Ottanta, un po’ sgranati e non saturi. E’ un tocco d’autore?
“Il direttore della fotografia Leonardo Mirabilia è giovane ma affermato, ha lavorato a videoclip di artisti come Mahmood, Emma Marrone ed Elodie, e ci conosciamo da anni. Sa individuare esattamente quello che vuole un regista. “I miei supereroi” è un corto girato tutto in esterni, nella location di Castel Gandolfo, e ho chiesto a Leonardo un’atmosfera che fosse una nostalgica senza scadere nel vintage. Abbiamo avuto come riferimento “Standy By Me” (in italiano “Ricordo di un’estate” – ndr), film di Rob Reiner del 1986, e abbiamo optato per dei colori non troppo accesi: è una storia un po’ drammatica, dai toni riflessivi, che si apre solo col tuffo finale. Quella è stata in effetti una scelta vintage, chiudere sul salto col fermo immagine è veramente anni Ottanta. L’intero corto è stato girato con macchina da presa a spalla, a altezza bambino, per immedesimarsi. La camera rappresenta il punto di vista di un ipotetico quinto ragazzino lì presente. In casi come questi non voglio far ‘sentire’ troppo la macchina da presa in movimento, preferisco far entrare lo spettatore negli eventi senza troppe descrizioni e lasciargli capire le dinamiche da solo. E’ uno stile registico molto mimetico, senza sovrastrutture, nemmeno visive. Abbiamo girato un solo dettaglio, per dire”.
Il tuffo simulato è il tentativo di compiere un gesto “normale” che hanno visto fare dalle persone intorno a loro, che non hanno – apparentemente – né fobie né patologie?
“Si tratta di una prova di coraggio, soprattutto per bambini emofiliaci. Non è importante se poi ti tuffi o no, non importa se finisci in acqua o meno. Quello che conta è prendere coscienza di cosa si è ed essere pronti a tuffarsi, metaforicamente. Già se un ragazzo si apre sulla malattia con i suoi coetanei è importante, anche questo è un ‘tuffo’. Ho scelto il fermo immagine perché non volevo che magari l’immagine arrivasse a un ragazzino emofilico e quest’ultimo recepisse un messaggio negativo, cioè che lui non può nella vita vera mentre i protagonisti del cortometraggio lo fanno, seppure nella finzione”.
Nella tua carriera hai fatto più volte ricorso a un immaginario per mostrare parallelismi e plasmare metafore. Mi vengono in Totti e uno dei supereroi X-Men, Wolverine.
“Questi corti hanno target di pubblico giovane e parlano di giovani, per cui servono dei meccanismi per raccontare. Prendi ‘Pupone’, lì il tema è una domanda: “crescere significa dover andare via?”. Noi giovani italiani siamo spesso descritti come dei mammoni, restiamo in famiglia con i genitori perché dobbiamo fare l’università, per esempio. Chi cresce nelle case famiglia a 18 anni invece deve uscire. Per far passare questo messaggio allora serve un punto di riferimento molto conosciuto. Totti è cresciuto nella Roma, ha fatto tutta la trafila delle giovanili fino a che, a 40 anni, ha dovuto lasciare il calcio e la divisa coi colori giallorossi. Nel discorso d’addio allo stadio disse delle parole che mi colpirono. Che lui aveva paura perché il suo futuro diventava incerto. Lo stesso sentimento che vive Sasha, il protagonista di ‘Pupone’. Come Totti è un eroe per chi ama il calcio, gli X-Men sono idoli di tantissimi giovani che seguono le orme di figure che li affascinano. Attingere da un immaginario è un tipo di scelta che connette con i giovani”.
Secondo te dal film emerge di più la loro diversità o il loro essere bambini di 12 anni, prima che emofilici?
“C’è la volontà di raccontare non una sola tesi, odio i film in cui tutto è manicheo. Chi racconta parte da una domanda poi ognuno si dà la risposta. Viviana, il personaggio di Neva, è per esempio, l’antagonista positivo di Mattia-Guglielmo, che ha un approccio più sul versante dell’indipendenza e dell’autonomia. Sono diversi ma non c’è uno scontro tra buono e cattivo, ci sono visioni differenti e non prevale una tesi. Mi piace fare storie che possono comunicare anche in ambiti diversi e ritengo che il pubblico debba farsi una sua opinione”.
Riagganciamoci al tuo discorso sul mostrare il mondo degli educatori, con i loro punti di forza e le loro debolezze. I bambini protagonisti soffrono di emofilia e si sentono diversi, per farli sentire più a loro agio Mattia gli parla di una sua paura, la talassofobia, il terrore di ciò che si può trovare sott’acqua. Un modo per mostrare anche in questo caso uno dei “punti deboli” dell’educatore?
“Quest’elemento in realtà non era presente nel racconto. Noi volevamo raccontare la paura, ma quali paure può avere un educatore? Visto che si parlava di tuffo nel lago e che i bambini hanno paura di farsi male, gli abbiamo fatto tirar fuori questa fobia, anche se non sappiamo davvero se ce l’ha. L’abbiamo scelta una con un nome molto strano anche perché ci serviva un escamotage tecnico per parlare dell’emofilia. La patologia infatti la nomina per la prima volta in quello scambio di battute il piccolo Vittorio, il personaggio di Alessio”.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza di aver girato questo corto, di aver affrontato questo tema?
“Abbiamo fatto un grande lavoro preparatorio alle riprese, che sono durate un paio di giorni, e in post-produzione. Adesso si parte con la promozione perché il corto non parla da solo, serve l’apporto di tutti noi. Volevamo raccontare un mondo, un contesto che potesse piacere al pubblico e in più volevo convincere le produzioni e i partner che è possibile narrare in maniera cinematografica anche se si ha una missione quasi da spot pubblicitario. E’ un prodotto rivolto ai ragazzi della stessa età dei protagonisti, per fargli capire cos’è l’emofilia, non tanto i suoi sintomi quanto quello che comporta nella vita delle persone. E’ stata sfida professionale importante, senza volersi imporre o fare il genio, vinta perché abbiamo lavorato di squadra con obiettivi condivisi e la comprensione del progetto da parte di tutti. I partner sono rimasti molto colpiti. E’ fondamentale ricordare che il cinema è l’arte più collettiva che esiste e il progetto deve essere condiviso”.