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Tutto quello che non sai sulla Ru 486

Dovremmo proporre l’istituzione di un premio Nobel per l’ipocrisia, indicando ottimi candidati: gli estensori e sostenitori della legge 194, dal 1978 all’ultima circolare sulla RU 486. Con un’evidenza “speciale”: quella dei sedicenti cattolici le cui coscienze sono talmente anestetizzate (o vendute!) da nascondersi dietro ai diritti della donna, pur di legittimare l’uccisione di un innocente indifeso. Forse è utile ricordare questo manifesto dell’ipocrisia, con il linguaggio tipico del politicamente corretto: “Lo Stato … riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio… Lo Stato, le regioni e gli enti locali promuovono e sviluppano i servizi sociosanitari per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”, articolo 1 legge 194/78.

In perfetta coerenza con queste “nobilissime” dichiarazioni siamo giunti a più di sei milioni di aborti legali in quarant’anni e, per evitare possibili e dannosi cali di performance, si sta promuovendo l’aborto chimico a domicilio, con la tecnica del “fai da te” tanto cara ai cultori dell’autodeterminazione senza limiti.

Il mifepristone (RU 486, nome derivato dall’azienda produttrice Roussel-Uclaf) è un ormone steroideo di sintesi, ad attività antiprogestinica, che provoca la morte dell’embrione e che nel 97% dei casi va associato ad una prostaglandina, per ottenere l’espulsione dell’embrione morto. E’ in commercio dagli anni ’80 (iniziando dalla Francia, dato che il suo inventore fu il francese Etienne Emile Baulieu) e in Italia diviene legale dal 10 dicembre 2009, dopo parere favorevole dell’AIFA. Vennero fissati due “paletti” all’uso di questo “pesticida umano”, come lo definì Jerome Lejeune: somministrazione ospedaliera e non oltre il limite massimo della settima settimana di gravidanza.

La circolare del Ministro Roberto Speranza ha fatto cadere questi limiti, consentendo l’approvvigionamento della pillola in day-hospital e l’utilizzo fino alla nona settimana. Di fatto, viene esteso a tutto il territorio nazionale quanto già avevano deciso ed approvato due regioni italiane, Emilia Romagna e Toscana, mentre era stato bloccato in Umbria grazie al coraggioso intervento della governatrice Donatella Tesei. Sono stati scritti libri, con argomentazioni scientifiche, giuridiche e bioetiche, che dimostrano la scelleratezza di una simile decisione, e dunque soffermiamoci su poche e sintetiche considerazioni.

La RU 486 è un veleno per il bimbo, provocandone la morte, ma è un veleno anche per la mamma dato che presenta una mortalità materna dell’1,1 per 100.000 aborti: dieci volte di più dell’aborto chirurgico. A scoperchiare questo vaso di pandora delle morti per aborto chimico con RU 486 – ancora oggi presentato all’opinione pubblica come l’aborto facile, amico delle donne! – fu, nel 2005, nientemeno che il già presidente del Comitato di Bioetica francese, Didier Sicard, la cui figlia primogenita, Oriane, avvocato di 35 anni, era morta negli USA poche ore dopo aver assunto la pillola, a seguito di una setticemia fulminante.

Fu così che si mise in moto il New England Journal of Medicine, la più prestigiosa rivista medica del mondo, che documentò una ventina di casi di donne morte dopo l’uso della RU 486. In Italia, nell’aprile 2014, fece scalpore il caso di una giovane torinese, già madre di un bimbo, che morì per arresto cardiaco dopo l’assunzione della prostaglandina che doveva aiutarla ad espellere il feto morto. Si aggiunga che l’uso a domicilio di questa pillola impone alla donna una stretta sorveglianza che l’embrione morto sia completamente espulso, evitando che parti di esso possano essere rimaste annidate in utero: se questo accade potrebbero insorgere gravi problemi per la salute della donna e si deve rapidamente ricorrere al raschiamento chirurgico.

Ciò significa, in pratica, che la donna deve controllare che in mezzo al materiale biologico eliminato, nel bidet o su un lenzuolo, sia presente l’embrione morto e tutto intero! Comunque la si veda, non è difficile immaginare l’impatto psicologico che ne consegue, su di una donna – per giunta – lasciata completamente sola. Senza mai dimenticare di che cosa stiamo parlando: una creatura umana che a 18 giorni di vita ha un cuoricino che batte, e a 40 giorni ha la sua “identità” con le sue impronte digitali ben definite!

L’altro aspetto da sottoporre a giudizio è l’allungamento del tempo di utilizzo a nove settimane. Perché? Qual è la motivazione scientifica che spinge ad una scelta simile? O quella politico sociale, acclarato ormai in modo incontestabile che in Italia il “diritto” di aborto è garantito, ovunque, senza ritardi. Perché mettere a rischio la salute e financo la vita di una donna, quando può soddisfare la propria scelta in modo sicuro? E’ più idoneo un ambulatorio o un reparto ospedaliero, o il bagno di casa? E’ più utile avere accanto un sanitario o “arrangiarsi” in cucina, da sola? Sono domande di semplicissima praticità, che solo il delirio ideologico può ignorare.

Si è perfino invocata l’emergenza COVID che rendeva difficoltoso l’espletamento dell’aborto in ospedale. Menzogna pretestuosa, dato che il “servizio” IVG non è stato mai interrotto. E’ stato interrotto, ad esempio, il servizio senologico (mammografie) che deve portare alla diagnosi e terapia precoce del cancro della mammella – da cui dipende la vita della paziente portatrice – ma il “servizio” IVG non è stato mai toccato!

Chissà se il Ministro della Salute ne è al corrente e se accanto ai numeri di morti per COVID, ci verrà mai data informazione di quanti cittadini italiani sono morti o gravemente complicati per mancate diagnosi o diagnosi ritardate a causa di servizi sanitari importanti bloccati? Ma l’IVG, la legge 194, non ha conosciuto ostacoli di sorta. A rendere ancora più irrazionale la scelta della nona settimana ci sta il dato scientifico che più la gravidanza è avanzata, più alto diventa il rischio per la donna gravida.

Dunque, proprio sul piano strettamente pratico-scientifico, nulla giustifica quella mortifera circolare ministeriale. Quanto, poi, al parere dell’Istituto Superiore di Sanità, lanciamo una sfida: un confronto pubblico, chiaro ed onesto, con argomentazioni scientifiche, con nostri specialisti che difendono sì la vita, del bimbo e della mamma, ma soprattutto amano la verità. Siamo davvero stanchi di “documenti secretati” che impongono verità e scelte tutte da dimostrare

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