Dici 11 luglio e il cuore azzurro si gonfia d’orgoglio. Una data che per sempre rimarrà indelebile nella mente degli sportivi italiani. L’11 luglio del 2021, l’Italia di Roberto Mancini ha conquistato a Wembley contro l’Inghilterra, il titolo di Campione d’Europa. Ma c’è un altro 11 luglio, ben più importante, forse la data più importante del calcio italiano, quello del 1982, quando la Nazionale di Enzo Bearzot vinse al Bernabeu di Madrid, il terzo titolo mondiale della sua storia. Ma quel titolo rimarrà scolpito per sempre nella storia, il più bello, il meno atteso.
Arrivammo in Spagna con il solito carico di polemiche che quando si tratta di Nazionale, non mancano mai. Alle spalle la eco degli scandali, forse il più grave che abbia mai sconvolto il calcio italiano, quello del calcio scommesse, divampato dopo la denuncia di un fruttivendolo. Polizia e carabinieri entrano negli stadi, tra l’incredulità degli spettatori. Era il 23 marzo del 1980: tra i giocatori arrestati Bruno Giordano, ordine di comparizione per Paolo Rossi. Dopo mesi la sentenza: tre anni per il laziale, due per il perugino appena arrivato dal Vicenza. Una sentenza pesantissima, una mazzata per il ct Bearzot alla vigilia dell’europeo dell’80 dove chiudemmo al quarto posto.
Il mondiale dell’82 prometteva poco o niente, con il ct ancora bersagliato dalle critiche. In Spagna non portò gli emergenti Beccalossi e Pruzzo capocannoniere nella Roma, ma rispolvera quel Paolo Rossi che intanto era stato ceduto alla Juventus e che aveva da poco scontato la condanna. Ed invece, come in una favola, ecco l’Italia, quella che nel momento del bisogno c’è sempre, capace di superare gli ostacoli, arrampicarsi sugli specchi pur di dare un calcio alle beghe del passato. E nell’immaginario collettivo, c’è quel grido Campioni del Mondo, ripetuto tre volte dalla voce strozzata dall’emozione di Nando Martellini. L’Italia ha vinto, è campione del Mondo, contro tutto e contro tutti.
Ho ascoltato quelle parole e rivisto quella partita mille volte, ma nei miei occhi rimarranno indelebile per sempre le scene di una Madrid tinta d’azzurro, della sonnacchiosa Barcellona rattrista dal pianto dei brasiliani ancor più della rabbia degli argentini. Ho avuto la fortuna di vivere dal vivo quei momenti, quel crescendo inatteso perché dopo il girone eliminatorio, le premesse erano davvero magre. L’arrivo da outsider, i tre pareggi nella fase a gironi con Polonia, Perù e Camerun che ci consegnarono ad un girone di ferro contro Argentina e Brasile allo Stadio Sarrià di Barcellona. Sotto il sole cocente della Catalogna, 40 e passi gradi all’ombra, la Diagonal e le Ramblas fino al porto storico, si tinsero d’azzurro. L’Italia che lavora, che suda, che piange e stringe i denti nel momento del dolore, riesce a compiere quello che iconicamente rimarrà un miracolo sportivo.
Due a uno all’Argentina il 30 giugno grazie ai gol di Tardelli e Cabrini. Il 3 ci tocca il Brasile, in un Sarrià che è una torcida brasiliana. Proprio quel Brasile che era l’emblema del futebol bailando, che aveva in rosa campioni del calibro di Zico, Falcao, Socrates, Junior, Cerezo, davanti al monumento al catenaccio, come ci hanno sempre dipinti al di là del Rubicone. Carioca favoritissimi per la vittoria finale, non c’è partita, anzi c’è perché il Brasile più forte di tutti i tempi, persino della squadra che vinse il mondiale messicano del ’70, era troppo convinto di arrivare in finale e vincere, che sottovalutò, e non poco, la nostra nazionale. Rossi dopo 5’ per l’1-0, il pari di Socrates a stretto giro per riportare sulla terra l’Italia. Nella ripresa il nuovo vantaggio azzurro ancora con Rossi e nel finale il 2-2 di Paulo Roberto Falcao. Ai brasiliani, per differenza reti, avendo battuto 3-1 l’Argentina, bastava il pari. Leziosi, continuavano a palleggiare in mezzo al campo, con la disinvoltura di chi si sente immortale. E a venti dalla fine, il colpo che cambiò la storia. Un cambio campo lento e prevedibile, l’incursione di Paolo Rossi, la falcata poderosa prima di infilare Valdir Perez per il 3-2 finale. Che sarebbe stato 4-2 se l’arbitro israeliano Klien, non avesse annullato un gol regolarissimo ad Antonioni. Anni dopo ammetterà l’errore di essersi fidato del suo guardalinee, ma di essere stato poi bravo a giudicare in campo la parata di Zoff sulla linea mentre i brasiliani esultavano. In semifinale, l’8 luglio, di nuovo la Polonia liquidata con il classico inglese di 2-0 con doppietta di Paolo Rossi. E così in finale arrivarono Italia e Germania, 11 luglio 1982, stadio Santiago Bernabeu di Madrid.
Prima del via, si blocca l’inno nazionale italiano. Uno spagnolo accanto a me ripete “mala suerte”. Poi si fa subito male Graziani e dentro Altobelli. Cabrini a calciare fuori un calcio di rigore e il solito spagnolo accanto a ripetere “mala suerte”. Ma furono, per fortuna nostra, solo episodi, perché nella ripresa esplose l’Italia. Rossi, Tardelli, Altobelli, con il presidente Sandro Pertini che in tribuna si alza in piedi con la pipa in mano dicendo “non ci prendono più”. Nel finale il 3-1 di Breitner rese meno pesante il passivo per i tedeschi.
E quando l’arbitro brasiliano Coehlo fischiò la fine, l’apoteosi nel tempo del madridismo. Una overdose d’amore, il tricolore a sventolare in tutto lo stadio, a dispetto di tutto, l’Italia è campione del mondo. Ad alzare la coppa al cielo di Madrid, il vecchio Dino Zoff, che a 40 anni, dimostrò ancora di essere il migliore. E il petto a gonfiarsi d’orgoglio. Accadeva esattamente quarant’anni fa, una di quelle imprese che hanno reso meravigliosa la nostra nazionale. Domani in via Allegri, sede della Figc, la Coppa sarà esposta sotto il porticato, visibile a tutti, per celebrare insieme uno dei trionfi più belli per il nostro calcio. E uno sguardo al cielo, un bacio a chi di quella nazionale se ne è andato anzitempo, Enzo Bearzot, Gaetano Scirea, Paolo Rossi, colui che divenne Pablito dopo il trionfo spagnolo. A distanza di 40 anni, ancora grazie azzurri, la vostra storia è leggenda.