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Quando il malato psichiatrico era considerato un reietto

Intervistata da Enzo Biagi a vent’anni dall’introduzione della riforma legislativa che re-inquadrava la condizione della malattia mentale nell’ordinamento italiano, la vedova di Franco Basaglia, Franca Ongaro, rispose al suo intervistatore che il bilancio degli effetti della cosiddetta “legge Basaglia” (in realtà proposta dal collega psichiatra, docente e deputato democristiano Bruno Orsini) del 13 maggio 1978, era stato fino a quel momento più negativo che positivo. I motivi di questa valutazione sfavorevole erano da addebitare alla mancata realizzazione concreta e completa dei principi che ispirarono la nuova normativa, poi  abrogata e ripresa quasi per intero  dalla legge n. 833 del 23 dicembre 1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale.

La parabola di questa legge che rivoluzionò la concezione e la condizione del “paziente mentale” e che ha rappresentato il paradigma di riferimento per le scuole della psichiatria moderna di molti altri Paesi, rappresenta un po' la metafora del carattere culturale italiano, fatto di grandi eccellenze della creatività e della ragione che fanno da contraltare alla decadenza morale e civile che si perpetua nella storia. Fino a quel 13 maggio di quarant’anni fa, in Italia vigeva ancora una legge del 1904 del governo Giolitti che era sopravvissuta a due guerre e, soprattutto, alla nuova Costituzione del ’47 i cui principi innovatori la resero sostanzialmente – ma non formalmente – illegittima.

Prima della riforma di Franco Basaglia, avversata dai Radicali di Pannella che auspicavano un’abrogazione totale del regime giuridico precedente, ma che involontariamente se ne fecero suoi propulsori politici, il malato psichiatrico era considerato più oggetto che soggetto giuridico, più reietto privo di diritti che persona e cittadino. Il ricovero coatto rappresentava l’esercizio del potere disumano e disumanizzante che la società moderna, sempre più laica e iper-razionale, esercitava sulle anime fragili e non immediatamente omologabili ai nuovi standard civili. Il manicomio era il luogo eterotopo di Foucault, l’esasperazione del non luogo di Augé, una gabbia di contenimento sociale più che di cura, dove i rapporti umani rimanevano sospesi a tempo indeterminato, dove la solitudine e l’impotenza erano gli unici diabolici compagni che hanno spinto tanti uomini e donne verso l’oscuro non ritorno.

Con la “legge Basaglia” si aprirono definitivamente le porte dei manicomi perché si concretizzassero nuove pratiche di cura che abbandonassero il determinismo biologico che le aveva caratterizzate a tal punto da legittimare l’ordinarietà di pratiche quali i letti di contenimento e l’elettroshock, per scoprire il valore terapeutico della relazione umana e della psicoterapia. A quarant’anni di distanza, se l’Italia può vantare la paternità di un paradigma scientifico e culturale rivoluzionario, allo stesso tempo può constatare l’impossibilità dei suoi apparati di incarnare lo spirito dei suoi figli migliori e l’incapacità di implementare le loro idee più feconde.

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