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L’ultimatum economico al virus predone

Il Report del Centro Studi della Confindustria ha lanciato un messaggio drammatico. Se la quarantena dovesse durare fino a maggio, il Pil crollerebbe del 10% nella prima metà del 2020 e del 6% su base annua. Ogni mese di ‘’fermo’’ in più costerebbe un ulteriore taglio dello 0,75% ovvero di 13 miliardi. Avvertiamo subito che si tratta di previsioni clementi, perché altri osservatori – soprattutto internazionali – sono molto più severi. In sostanza, il virus, come tutti i predoni ci sta facendo un’intimazione netta: o la borsa o la vita. Così, si è aperto un dibattito sul ‘’che fare ?’’: si scontrano due visioni, che partendo dal versante sanitario ricadono direttamente sulle scelte politiche da compiere. E’ chiaro ormai che per almeno fino a Pasqua prevarranno le misure di quarantena, senza modifiche. La curva del contagio non è ancora in discesa come ci si aspettava. Ormai spira, però, un’aria da ultimatum al Covid-19: “Se non te ne vai da solo, cercheremo di abituarci a convivere con te”. Più che il dolore potrà il digiuno.

Naturalmente non sarà consentito di cambiare linea da un giorno all’altro. La riapertura deve essere organizzata per tappe, attentamente monitorata ed accompagnata – ce lo auguriamo – da una campagna mediatica più equilibrata. Le prossime settimane, ancora sottoposte al regime duro di quarantena, dovrebbero servire alla ricostruzione di un quadro normativo che non solo consenta ai cittadini una condizione di sopravvivenza e restituisca loro un minimo di libertà civili, ma che prepari quella ripartenza a V che in tanti auspicano, evocando la riscoperta dello ‘’spirito del dopoguerra’’. Anche se le iene sovraniste vorrebbero spartirsi il cadavere dell’Unione, attaccandosi allo stallo (che verrà presto superato) della discussione sugli eurobond, l’Unione e la Bce stanno facendo la loro parte: il Patto di stabilità è sospeso e la liquidità è garantita.

Ma non possiamo andare avanti molto utilizzando risorse per vivere, senza porsi il problema di produrne. Non è ammissibile che si iberni un continente lasciando ogni cosa al suo posto: le fabbriche ferme, i rapporti di lavoro attivi ma sospesi, gli ammortizzatori sociali invece degli stipendi. E’ troppo comodo utilizzare l’input di Mario Draghi ognuno ad uso del proprio delfino. L’ex presidente della Bce, non ha cambiato linea; è cambiata la situazione. E in quella che si è determinata non bisogna preoccuparsi di ‘’fare debito’’. La questione chiave – ha insistito ancora Mario Draghi – non è se, ma come lo Stato debba fare buon uso del suo bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a chi perde il lavoro. Dobbiamo, innanzitutto, proteggere le persone dal rischio di perdere il lavoro”.

E il posto di lavoro si salva salvando le fabbriche, costi quel che costi. Così in questi giorni cruciali non dovremo perdere l’occasione di mettere mano ai lacci e ai laccioli che da vent’anni impediscono alla nostra economia di crescere. E se un coordinamento è mancato a livello europeo nella fase dell’emergenza sanitaria, non può venir meno nell’organizzazione del riavvio. Le economie, in particolare quelle europee, sono troppo interconnesse tra di loro per funzionare con tempi e ritmi diversi. C’è un problema di forniture che coinvolgono gli apparati industriali di diversi Paesi (si pensi ai legami tra le produzioni tedesche e quella delle regioni della Val Padana). Se i flussi venissero interrotti diventerebbe necessario ricostruire altrove le filiere produttive. Ormai non esiste più un apparato produttivo nazionale autosufficiente, soprattutto per un Paese come l’Italia la cui economia ha potuto ‘’tirare il fiato’’ grazie alle esportazioni.

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