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Le due cause che hanno provocato la crisi del settore automobilistico

In questi mesi si è letto spesso sui giornali della crisi del settore automobilistico e i numeri sulle vendite non spingono certo a ipotizzare una ripresa a breve. Ma da cosa deriva questo? Sicuramente non si tratta di una questione improvvisa, le radici della situazione odierna sono profonde e vengono da decisioni sballate sia a livello industriale sia a livello politico che hanno affossato uno dei settori industriali principali nel vecchio continente e che, oggi, cominciano a colpire pesantemente anche l’indotto, fatto di commerciali e produttori di componentistica.

Il primo punto da analizzare è quello politico e riguarda, soprattutto per l’Europa, l’agenda green che, penso sia chiaro per tanti, è stata messa a terra in maniera ideologica e senza alcuno studio di sostenibilità, soprattutto riguardo al bando alla produzione dei veicoli endotermici fissato per il 2035 (cfr Regolamento UE 2023/851); la cosa ha portato a una situazione paradossale poiché le auto elettriche o a emissioni di anidride carbonica zero sono troppo costose e con seri problemi di gestione legati a autonomia e ricarica mentre quelle tradizionali vengono spesso discriminate nella circolazione, come è visibile dalle norme relative all’accesso a città come Milano, con il risultato che le prime faticano ad affermarsi (con forti cali di vendita oggi, finito l’entusiasmo iniziale) mentre le seconde non si vendono se non per necessità.

Anche i problemi nelle consegne della componentistica, diventati palesi e molto problematici negli anni del Covid, hanno inciso poiché i tempi di attesa per la consegna dei nuovi veicoli erano diventati insopportabili tanto che, in molti, si sono rivolti al mercato dell’usato che, per contro, ha visto una nuova primavera con l’aumento dei prezzi e dei margini per i rivenditori che ha dato un respiro più lungo al comparto commerciale del segmento economico ma che non può essere la soluzione.

A questo va aggiunto un altro punto non certo secondario, cioè i prezzi. Le auto costano troppo, oggi anche quelle con propulsione “tradizionale”. Come può essere sostenibile un mercato in cui un’utilitaria come la 500, di listino, parta da 17’700 euro, o una media come la Ford Focus parta da 30’000 euro (anche se in “promozione” si scende a 23’900 euro come risulta sul sito della casa automobilistica)?

Se per un reddito medio italiano si parla di un esborso assai importante poiché questo è, oggi, pari a meno di 21’200 euro lordi pro-capite (dato MEF sul 2022) anche a livello europeo non è che la situazione cambi radicalmente poiché a parità di potere d’acquisto è perfettamente in linea con la media europea che vede primeggiare il Lussemburgo con 36,6K e trova come fanalino di coda la Slovacchia con appena 10,200 mila ma, tolto il primo la distanza tra il reddito medio italiano e il secondo classificato, l’Austria, è di appena il 31% circa collocandosi questa con una media di 27,800.

È evidente che l’acquisto di un’auto nuova, seppur una buona “piccola” come la 500, diventi un impegno economico non indifferente per chiunque non goda di remunerazioni ben oltre la media e questo ne renda difficoltoso l’acquisto anche facendo ricorso a finanziamenti che, al di là dei tassi cresciuti sensibilmente con la stretta monetaria di due anni fa, hanno una struttura assai peculiare con, solitamente, un corposo anticipo, una rateizzazione per un periodo medio di 36 mesi e una maxi rata spesso pari quasi alla metà del prezzo di acquisto per spingere al cambio del mezzo e all’accensione di un nuovo finanziamento in un ciclo continuo di rate e permute sicuramente non molto attrattivo per la maggior parte dei possibili acquirenti che punta a tenere una macchina, sempre in media, per circa 12 anni.

La situazione che si è venuta a creare, quindi, ha penalizzato ogni decisione di sostituzione dell’auto posseduta in molte persone che aspettano sia una maggiore certezza su come e quali saranno i modelli di automobile nel futuro sia una normalizzazione dei prezzi che rendano sostenibile l’impegno economico derivante dall’acquisto di una nuova autovettura. Se, poi, a questo si aggiungono i costi accessori, come assicurazione e imposte di circolazione, e le restrizioni al traffico che molti comuni hanno introdotto anche eliminando migliaia di parcheggi ecco che lo scenario per un rilancio del mercato sia abbastanza difficoltoso.

Diciamo, quindi, che la crisi che si sta vedendo in Italia, come negli altri Paesi produttori, sia dovuta a due specifiche cause: una derivante dalla politica e una da miopi strategie industriali, focalizzate sui profitti a breve termine e su decisioni di investimento non ragionate.

L’impasse non è di facile soluzione poiché se, dal lato politico, il PPE ha già presentato la proposta di revisione al Regolamento che prevede il divieto di produzione di motori endotermici nel 2035 aprendo a una maggiore flessibilità, il Commissario alla Transizione Pulita Teresa Ribera ha ribadito in più di un’occasione la sua contrarietà alla cosa resterebbero le politiche locali che hanno penalizzato l’uso delle macchine in molte città che necessiteranno non solo di un cambio di visione dei futuri amministratori ma di un tempo abbastanza considerevole per poter impostare un dietro front efficiente.

Dal lato industriale, poi, le difficoltà saranno ancora maggiori perché rimediare a errori strutturali di investimento e di marketing richiede un tempo ben più lungo, sempre che le risorse delle aziende coinvolte bastino per finanziare il processo. Non è un mistero che il progetto di una transizione a veicoli BEV sia stato portato a terra in maniera troppo repentina e senza alcuno studio serio di sostenibilità, né dal lato produttivo né dal lato dell’approvvigionamento sia considerando la rete distributiva per le ricariche sia considerando la produzione di elettricità che non è una fonte energetica ma un vettore e, come tale, deve essere prodotto in maniera sufficiente a garantire i picchi di richiesta, cosa che necessiterebbe di una rivoluzione nel comparto energetico europeo aumentando i siti di produzione e di stoccaggio se si volesse ricorrere principalmente alle cosiddette fonti rinnovabili che non possono, per loro natura, garantire una produzione continua, salvo l’idroelettrico che, però, sconta delle forti limitazioni sia per via della conformazione geologica del continente sia per la possibilità di creazione di impianti di generazione, detto con l’accetta ovviamente.

Di qui la necessità, se non si volesse giungere a una crisi definitiva del settore, di una riprogettazione globale del segmento sia a livello normativo, per dare certezza sul futuro e consentire delle scelte razionali su cosa comprare, sia a livello di progettazione per tornare a prezzi sostenibili per la popolazione.

Certo non le soluzioni proposte da talune organizzazioni sindacali relative a nuovi sussidi all’acquisto e all’attivazione di ulteriori ammortizzatori sociali per consentire nuove riorganizzazioni aziendali a spese dei contribuenti che, invece, sarebbero solo un palliativo per prolungare l’agonia di questo settore economico che, nel bene o nel male, ha sempre trainato larga parte della produzione industriale del continente.

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