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I fattori che spiegano la condizione salariale dei lavoratori italiani

Ha senso chiedere – come in una recente ricerca – se i lavoratori sono soddisfatti della propria retribuzione? Se il 40% risponde in modo positivo è già un segnale importante. Certo, negli ultimi mesi sono emerse situazioni eccezionali. A cominciare dalla pandemia che – per effetto delle misure di contenimento – ha moltiplicato il numero delle ore di cig e scoraggiato le nuove assunzioni, specie per quanto riguarda i giovani e le donne. Nonostante queste improvvise difficoltà, sono stati rinnovati, alla loro scadenza, importanti contratti di lavoro.

Come confermano le statistiche dell’Istat alla fine di marzo 2022, i 39 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 44,6% dei dipendenti – circa 5,5 milioni – e corrispondono al 45,7% del monte retributivo complessivo. Nel corso del primo trimestre 2022 sono stati recepiti 5 contratti: scuola privata religiosa, cemento, calce e gesso, edilizia, mobilità – attività ferroviarie e Rai. I contratti che, a fine marzo 2022, sono in attesa di rinnovo salgono a 34 e coinvolgono circa 6,8 milioni di dipendenti, il 55,4% del totale. La retribuzione oraria media nel periodo gennaio-marzo 2022 è dello 0,6% più elevata rispetto allo stesso periodo del 2021. L’indice delle retribuzioni contrattuali orarie a marzo 2022 segna un aumento dello 0,1% rispetto al mese precedente e dello 0,7% rispetto a marzo 2021. In particolare, l’aumento tendenziale è stato dell’1,6% per i dipendenti dell’industria, dello 0,4% per quelli dei servizi privati ed è stato nullo per i lavoratori della pubblica amministrazione. Certo, i rinnovi contrattuali non hanno tenuto conto del tasso di incremento dell’inflazione, un fenomeno che si riteneva scomparso da tempo e che, a causa della crisi energetica, dell’aumento delle materie prime e del costo dei servizi, è ripartita con livelli preoccupanti, anche perché il contesto è destinato a peggiorare in conseguenza della guerra in Ucraina.

Il problema del recupero degli incrementi del costo della vita è molto serio. La regola che le parti sociali si sono date in materia di adeguamento delle retribuzioni in ragione dell’inflazione consiste in un meccanismo definito IPCA, che prevede l’esclusione dal computo della c.d. inflazione importata, sostanzialmente quella dipendente dai costi dell’energia. Fino ad ora il trend dell’aumento non destava preoccupazioni; oggi la situazione è cambiata. Le associazioni datoriali avrebbero il diritto di sostenere l’applicazione dell’IPCA; ma ciò comporterebbe una riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni, inaccettabile per i sindacati. Nello stesso tempo va evitata una rincorsa salariale che – come è avvenuto nel secolo scorso – consoliderebbe i tassi fino ad arrivare ad incrementi a due cifre e a due decine. In pratica, gli incrementi retributivi diverrebbero illusioni ottiche, perché sarebbero erosi, in breve, da ulteriori aumenti dell’inflazione con conseguente riduzione del poter d’acquisto.

E’ per questi motivi che il problema non può essere lasciato alle parti sociali, ma deve essere il governo a promuovere un patto sociale con riguardo ad una politica dei redditi garantita e compensata da adeguate politiche fiscali e di ristori per le imprese e la famiglie. I 14 miliardi stanziati a questo scopo (che si aggiungono ai 15 miliardi già stanziati dall’autunno scorso). Gli interventi in materia fiscale devono ridurre il divario tra costo del lavoro e salario netto che rende oneroso per il datore qualsiasi aumento retributivo che, arrivato in busta paga, viene percepito a stento e in modo dilazionato dal dipendente.

Ma ci sono altri fattori che spiegano – anche se non giustificano – la condizione salariale dei lavoratori italiani nel confronto con i colleghi di altri Paesi. Le differenze nel costo della vita, per esempio, che altrove è più elevato che da noi; ma pure a parità di potere d’acquisto rimane comunque lo svantaggio delle retribuzioni italiane. Ci sono altri aspetti che entrano in campo: tra di essi la questione della produttività del lavoro. Su questo aspetto cruciale, l’Italia appare sempre più lontana dall’Europa: secondo Eurostat, nello stesso periodo di tempo (1995-2019) in cui la produttività del lavoro italiano ha sperimentato una media annua dello 0,3%, l’Ue a 28 segnava un incremento dell’1,6%; nell’Ue15 la variazione media annua era dell’1,3% e dell’1,2% nell’area Euro. Tassi di incremento in linea con la media europea sono stati registrati dalla Francia (1,3%), dal Regno Unito (1,5%) e dalla Germania (1,3%). Per la Spagna il tasso di crescita (0,6%) è stato più basso della media europea ma più alto di quello dell’Italia.

E’ sufficiente citare quanto Mario Draghi ha scritto nella Prefazione al PNRR a proposito di questo ormai storico gap: “Dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia – nota il presidente del Consiglio – è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo’’.  Certo, la produttività non è solo un problema del capitale umano, ma del complesso degli input (investimenti, nuove tecnologie, R&S, servizi pubblici efficienti, ecc.) che determinano l’organizzazione della produzione e i prodotti. Ma per aumentare le retribuzioni occorre saper agire nelle sedi in cui lo scambio tra le parti ha un senso, una convenienza; ovvero nel luogo di lavoro attraverso la contrattazione di prossimità, che è poi – in diverse forme – una delle caratteristiche della struttura della contrattazione collettiva vigente in altri Paesi. In Italia non solo non abbiamo consolidato quest’orientamento, ma siamo tornati indietro, al primato del contratto nazionale di categoria (quale produttività è negoziabile a quel livello?) che peraltro – a seguito del dibattito sul salario minimo legale e del fenomeno dei c.d. contratti pirata – è tornato in auge anche nell’ambito della ricerca di strumenti giuridici per attribuirvi efficacia erga omnes.

Negli anni scorsi si era cercato di rendere strutturale la detassazione – entro un tetto determinato – dei miglioramenti retributivi legati ad obiettivi di miglioramento della produttività e della qualità del lavoro. Addirittura con l’articolo 8 della legge del decreto n.138 del 2011 si era trovato il modo per stabilizzare la contrattazione di prossimità; ma su quella norma esiste tuttora una fatwa della Cgil alla quale si sono tutti attenuti. In questa legislatura il governo giallo-verde non ha certo favorito questo livello negoziale; ma anche il governo Conte 2 ha proseguito in retromarcia. Eppure la grande prova di responsabilità che hanno fornito le forze sociali nel garantire la riapertura delle aziende in condizione di relativa sicurezza, dovrebbe valorizzare quella ‘’contrattazione di prossimità’’ che ha consentito questi risultati. Per correttezza poi bisognerebbe ricordare, pur con tutti i suoi limiti, la “via di fuga” nel welfare aziendale. Il PNRR non si occupa di politica contrattuale e salariale. Ciò non significa che il tema non esista concretamente nella realtà soprattutto a fronte dell’esigenza di un notevole recupero di produttività rispetto agli altri Paesi.

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