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Elezioni in Iran: tra regimi che invecchiano e il futuro che bussa alle porte

Loro non vorrebbero eppure prima o poi il futuro dovrà arrivare, anche per chi è proverbialmente con tutti e due i piedi nel passato più remoto. Iran, teocrazia fondamentalista dove se porti male il velo (che ti hanno imposto) non sai che fine fai. Ma anche paese dove si svolgono da sempre le elezioni presidenziali con pluralità di candidati, e questa in Medioriente non è una cosa scontata. Risultato: dopo la scomparsa del presidente della Repubblica, in un incidente d’elicottero che lì per lì ha fatto temere il peggio per la pace nella regione, si va regolarmente alle urne con una cinquantina di candidati, piccoli e grandi. Non che sia possibile nutrire illusioni: sarà il solito derby tra un’ala moderata del regime e un’altra conservatrice.

Oppure – questa appare l’ipotesi più probabile – tra due candidati ultraconservatori, perché dopo i moti di piazza di un paio di anni fa la vite si è stretta e la ragionevolezza è stata ulteriormente messa da parte. Ecco allora che Ibrahim Raisi avrà come successore o Saeed Jalili, oppure Mohammed Bagher Qalibaf. Nomi che ben poco dicono all’esterno, e questo è già un indizio su cui ci soffermeremo tra poco. Il fronte moderato invece avrà come uomo di punta Masoud Pezeshkian, che spera di arrivare al ballottaggio per fare da catalizzatore di tutti i voti della variegata opposizione iraniana. Perché, si sappia, persino in Iran si mantiene la regola del ballottaggio se nessuno supera il 50 percento al primo turno, e qui non andiamo oltre per non entrare in un’altra politica interna: quella italiana.

Difficile che Pezeshkian ce la faccia. Il fatto stesso, però, che i conservatori siano due, e nessuno di loro è un nome conosciuto, la dice lunga su un fattore spesso sottovalutato dell’evoluzione della rivoluzione islamica iraniana: il tempo passa, gli uomini devono cambiare, il carisma inizia a scarseggiare. Diciamo meglio: il presidente della Repubblica non conta molto, chi conta è la guida spirituale della Rivoluzione, cioè Ali Khamenei, che è il successore diretto del padre della Rivoluzione stessa. Ruhollah Khomeini. Ma Khamenei conta ormai 85 primavere, che non sono poche. Quando dovrà avere un successore, quindi, è immaginabile che si apra una fase di profonda transizione – per non dire vera e propria crisi – del regime, e per un periodo più o meno lungo la gestione del paese finirà in buona parte nelle mani di chi vincerà queste elezioni presidenziali. Non c’è potere più assoluto, infatti, di quello che per altrui impotenza finisce nella disponibilità di una carica fino ad allora protocollare o quasi. Il fronte conservatore non ha, in questa prospettiva, né un nome forte né una personalità di carisma.

Lo spirito e l’importanza di questa elezione presidenziale è tutto qui: nel tempo che passa, nei regimi che invecchiano. Mentre magari alle porte – lo diciamo senza retorica, perché un conto è indignarsi in Occidente e tutt’altra cosa lottare per una coccia di capelli fuori posto, ma a Teheran – premono milioni di giovani e di donne. L’Iran ha una popolazione tra le più giovani del mondo, la cosa si rivelerà determinante. Prima o poi.

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