Il tempo stringe, l’Europa sente il fiato sul collo e recupera un’agilità che sembrava persa nei quasi ottant’anni di accidentato cammino verso l’unità. Il fatto è che Donald Trump ha impresso – probabilmente ben al di là delle sue cognizioni di politica internazionale – un’accelerazione alla quale è impossibile non rispondere: anche il meno lungimirante dei sovranisti si rende conto che 27 piccolezze non avrebbero scampo, se separate. Unite invece qualche chance la mantengono: basta capire più o meno dove bisogna andare. Il resto lo farà quel grande motore immobile degli accadimenti umani che chiamiamo Storia.
Si riprende dal 1953: l’anno in cui Francia e Gran Bretagna, sentendosi forti dei loro piccoli programmi nucleari, boicottarono la Comunità Europea di Difesa. De Gasperi ne ebbe letteralmente il cuore spezzato. Al Continente spezzarono invece le reni, quei piccoli sovranisti ante litteram. Per fortuna in politica qualche volta si può rimediare: meglio allora non rivangare i sette decenni di vantaggio regalati agli altri e partire da dove si è giunti. L’Europa è cresciuta, anche se in altri settori. Ma se l’euro tanto timore incute, a certe capitali e ai loro addentellati, vuol dire che un ottimo risultato è stato. Non siamo, insomma, al punto di partenza: siamo semmai alla necessità di uscire dall’adolescenza.
Accade che a Londra si vedranno i leader dei 27; ospitati, graziosamente, da chi ai 27 ha chiuso recentemente la porta in faccia. Miglior nemesi delle scempiaggini sovraniste non si potrebbe trovare. Londra non riesce a ballare da sola, scopre che la quadriglia è meglio dello ye-ye ma ha un problema: non è abituata a dire “ho sbagliato”. Nessuno glielo chiede, saggiamente, ma resta il fatto che Starmer debba rimediare ad una gestione del potere dei Tory che sembrava uscita da “Quattro matrimoni e un funerale”: stessa capacità di arrivare in ritardo agli appuntamenti, stesso disregard per le regole sociali, stessa superficialità nei rapporti con il prossimo. Molto divertente, molto decadente. Trattandosi di Londra, vien da pensare che il disegno sia quello di restare fuori dagli impegni dell’Ue e dei paesi dell’Europa continentale, traendone un giorno tutti i vantaggi (anche commerciali) ma esercitando una sorta di egemonia libera da gravami. Una costante, questa, dai tempi del Congresso di Vienna. Siamo avvertiti.
Emmanuel Macron si presenta forte dell’interruzione imposta a Donald Trump, che quando parla è abituato al soliloquio. Il presidente francese gli ha ricordato di fronte ai giornalisti la verità dei fatti: per l’Ucraina il più è stato fatto dagli europei, mica dagli americani. Un piccolo gesto, un passo non incerto verso il rovesciamento dei rapporti, almeno a livello psicologico. Otto anni fa Macron invitava Trump alla parata del 14 Luglio, per porsi come mediatore tra le due rive dell’Atlantico. Oggi – complimenti per la prontezza di riflessi – brucia tutti sul tempo e si intesta la reazione europea ad un cambiamento scomposto di amicizie ed alleanze. Se Starmer pensa a Castlereagh, lui ha in mente (poteva essere altrimenti?) De Gaulle, con la sua idea di Francia mosca cocchiera d’Europa e dolce egemone di paesi fratelli, ma mai esattamente pari.
Non sarà l’esordio di Merz da Cancelliere di Germania: saggiamente ci si è dato tempo fino a Pasqua per mettere su una coalizione che dovrà essere grande, ma soprattutto duratura. La vera Alternativa per la Germania è tener fuori dalle stanze dei bottoni Alternative für Deutschland, possibilmente per sempre. Ci sarà Scholz, tecnicamente cancelliere azzoppato: tutti però sapranno che parlerà anche in nome e per conto del governo che sta per nascere. Sarà un governo europeista e anti sovranista e Scholz, paradossalmente, sarà più forte ora di prima delle elezioni. I paesi ex sovietici (ricominciano a chiamarli così: non per iattura ma perché sono loro le prime vittime sacrificali dell’intesa Usa-Russia) i paesi ex sovietici, dicevamo, tornano alle loro antiche paure. Non li invidiamo e li comprendiamo se esercito europeo sarà, potranno dare il loro contributo a cominciare da quella potenza regionale che si chiama Polonia. L’asse delle forze armate sarà spostato ad est, ma la loro gestione politica dovrà restare con il baricentro a Bruxelles. Astenersi, da ora in poi, dal creare gruppi sul modello Visegrad. Il giorno in cui Macron strizzava la mano illividita di Trump e quasi tutti i leader europei erano a Kiev a ribadire e rinsaldare amicizia, Giorgia Meloni era a Roma con l’ottima motivazione di 40 miliardi di investimenti emiratini. Più passano i giorni, più difficile diventa pensare di poter essere ponte tra due rive dell’Atlantico che si sono girate le spalle. Al recente vertice europeo convocato a Parigi appariva nelle foto abbastanza imbronciata. Ora ha l’occasione per reinventarsi un ruolo. A lei la scelta.
Detto tutto questo, ci sono 500 miliardi di euro da stanziare per dotare l’Europa di una difesa decente. Le modalità andranno trovate a Londra, ma soprattutto nei mesi successivi. La fase è magmatica, l’idea che si parta con le idee chiare illusoria. La vera fatica non sarà tanto nell’elaborare un progetto per un nuovo eurofighter o un tank supercorazzato: sarà armonizzare 27 eserciti che finora hanno sprecato immani risorse per fare l’uno quello che faceva l’altro, e costruire così 27 distinte debolezze. Impresa per nulla facile.