Non è retorico definire la pandemia da Covid-19, che ha “chiuso in casa” il mondo per 2-3 anni, un evento epocale. C’è rischio che torni un’altra pandemia a funestare la nostra epoca?
Prima di tentare una risposta, poniamoci un paio di domande. Esiste il rischio di una nuova pandemia? Sì. La risposta non è “se” ma “quando” e da “cosa” determinata. Alcune attendibili stime prevedono circa il 50% di probabilità entro il 2050. Quindi a distanza di tempo ravvicinato, non solo rispetto al passato remoto, quando nuove pandemie si presentavano a secoli di distanza (oggi diremmo quando non vi erano più generazioni “immuni”, ad es. di peste) ma anche rispetto al XX secolo segnato dalla influenza “spagnola” nel 1919 e dall’AIDS nel 1982.
Siamo preparati ad affrontare questa evenienza? Preparedness è il termine che traduce questa domanda, letteralmente: “preparazione ad una risposta di fronte ad una calamità”. Si usa in particolare per designare una calamità sanitaria, come una pandemia appunto.
Le nostre istituzioni nazionali preposte – Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità – vogliono essere tranquillizzanti e rispondono di sì, trincerandosi dietro ai progressi realizzati nel contrasto alla pandemia Covid. Abbiamo aggiornato il piano pandemico influenzale e implementato il piano pandemico Covid. E’ vero, quando è arrivato il Covid-19 il piano pandemico influenza era stato aggiornato solo in copertina e ovviamente non esisteva una piano pandemico Covid. Ma il punto debole di questa affermazione positiva è che si basa sull’ipotesi di una nuova pandemia influenzale o comunque da virus respiratorio, ipotesi al momento solo plausibile.
In effetti nella risposta allo stesso quesito gli epidemiologi e le organizzazioni sanitarie internazionali, Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). e Center for Diseases Control-CDC, propendono invece per il no, lamentando che le barriere di contrasto erette sono state di fatto dismesse e il problema rimosso per stanchezza e rifiuto di restrizioni da parte dell’opinione pubblica e anche dei governi. La posizione ufficiale è che l’avere smantellato le cautele sia di sprone ad una efficace preparedness.
Detto questo, per rispondere al quesito “da cosa causata”, analizziamo tre diversi ambiti di approccio:
fra i possibili fattori determinanti, il principale è certamente il cambiamento climatico, che ha di fatto comportato la “risalita della linea delle palme”, (per usare una metafora domestica), con sconfinamento di vettori (zanzare) e patogeni (virus) che ormai non possiamo più considerare esclusivamente “tropicali”. E questo vale anche per organismi superiori che sono migrati ad occupare nuovi habitat, sconvolgendo la biodiversità e l’equilibrio di specie autoctone (ad es. il granchio blu).
Inoltre i contatti ravvicinati con animali. Allevamenti intensivi mostruosi (citiamo ad esempio in Cina il Pig Palace, allevamento di maiali in grattaceli) e l’invasione di “santuari” un tempo inaccessibili: foreste (scimpanzé dell’AIDS) e grotte (pipistrelli del Covid) che hanno portato a eventi di spillover zoonotici.
Infine i cambiamenti comportamentali. La straordinaria accelerazione e intensificazione di comportamenti sociali, quali le migrazioni, l’iperturismo selvaggio “mordi e fuggi” e la libertà sessuale.
Tutto ciò ha costituito un puzzle che bene integra il concetto e gli ambiti strategici di Global Health (uomo, animali, ambiente) strettamente legati e interdipendenti, con interazione dei temi strettamente sanitari e la salute animale e dell’ambiente.
Per converso paradossalmente si è affermata la contestazione strisciante di norme di restrizione, l’affermazione di proteste no vax e no green pass e di teorie “complottiste” antiscientifiche, di ritorno al passato, per rifiuto del nuovo che inesorabilmente avanza e spaventa.
Di fronte a questa situazione complessa e contradditoria, una risposta efficace (preparedness) va costruita a vari livelli.
Epidemiologici. Predisporre e mantenere attivi servizi di Sorveglianza e Controllo per il pronto rilievo nella comunità di ogni patologia “inconsueta” (ricordiamo che l’AIDS venne individuato sulla base del rilievo “insolito” di pneumocistosi polmonare e sarcoma di Kaposi in giovani altrimenti sani).
Diagnostici. Predisporre servizi efficienti Point of Care (POC) per l’esecuzione di test rapidi anticorpali e di biologia molecolare per multipli patogeni su unica piattaforma e collegati in network.
Terapeutici. Assicurare la disponibilità di farmaci e devices per un rapido ed efficiente accesso alle cure.
A questo punto abbiamo gli elementi per mettere nel mirino gli obiettivi cui indirizzare la preparedness.
Il rischio pandemico può essere solo ipotizzato per cui la sorveglianza deve essere esercitata a 360° gradi, sia nei confronti di potenziali patogeni causali: in primis virus (di Ebola, Marburg, Lassa, Influenza, Coronavirus, Morbillo etc.) ma anche batteri. Da decenni si segnala come potenziale rischio pandemico, il fenomeno della Multi Drug Resistance (MDR). Alcuni batteri già oggi sono diventati iper-resistenti (XDR) a tutti gli antibiotici così da innescare una “folle corsa” all’inseguimento: sempre nuovi antibiotici per contrastare l’emergenza di sempre nuove resistenze.
Ovviamente in rapporto ai potenziali patogeni causali, per la messa in atto di provvedimenti di contrasto, vanno considerate le differenti modalità di trasmissione, che sono diverse per le infezioni respiratorie, oro-fecali, contatti sessuali, etc.
Infine va tenuto conto l’ambiente. Il progressivo inurbamento dalle zone rurali alle città e metropoli, unitamente al degrado igienico e alla precarietà abitativa e alimentare condiziona la “liberazione epidemica” di focolai altrimenti destinati a restare isolati (es. Ebola). Si torna ancora una volta al concetto di Global Health.
Per concludere, le parole chiave su cui si basa la preparedness sono attenzione e sorveglianza dell’evento “inatteso” e “flessibilità” nella adozione di contro-misure in ragione dei differenti potenziali patogeni, delle loro vie di trasmissione e di diffusione nella comunità.
E pazienza se verranno destinate risorse a spegnere focolai che non si sarebbero rivelati a reale rischio pandemico. Anche in questo caso vale considerare che la prevenzione paga mille volte i costi della terapia.