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Il mito dell’investimento in terra cinese

Da anni si assiste a una crescita del PIL cinese a livelli da secondo dopoguerra, quando i fondi del piano Marshall (più correttamente ERP, European Recovery Program) avevano inondato l’Europa occidentale per permetterle di riprendersi da una guerra devastante che aveva distrutto l’economia locale ed evitare che finisse sotto l’influsso del rivale russo. In molti si azzardano a ipotizzare un futuro con l’asse politico economico spostato in Asia pensando a un sorpasso dell’economia cinese su quella americana.

Guardando i freddi dati, probabilmente, questo scenario è ancora piuttosto prematuro perché solo per eguagliare il PIL degli Stati Uniti la Cina dovrebbe crescere al ritmo del 9% annuo per quasi sei anni sperando che gli USA entrino, almeno in stagnazione ma il punto è un altro. Da tempo esiste un certo mito sull’investimento in terra cinese, una volta spinto dall’idea di poter produrre a prezzi molto bassi e senza grandi regolamentazioni (cosa che ha fatto più di una “vittima” tra gli imprenditori rampanti, in verità) oggi di sfruttare un sistema economico in ascesa e con una classe media crescente e “affamata”, alla ricerca di uno stile di vita “occidentale”.

Ecco questa seconda è l’opportunità che si sta aprendo sempre di più in quella terra, unita all’apertura del mercato orientale a seguito della chiusura del RCEP. Inutile soffermarsi sul sistema politico locale, lo conoscono, più o meno, tutti, con la sua struttura autoritaria e monopartitica ma con una propensione al mercato molto singolare trattandosi ancora di un regime comunista, almeno nell’organizzazione del potere.

Dalla fine degli anni 80 del ‘900, ma ancor di più dopo l’apertura dei mercati a seguito dell’Uruguay Round e dell’ammissione della Cina nella WTO, si è assistito a una radicale trasformazione della struttura produttiva e finanziaria del paese, con la nascita di imprese non solo terziste e lo sviluppo della borsa locale con l’arrivo delle prime corporation private. Quando noi, figli della fine degli anni 70, eravamo bambini consideravamo la Cina, solitamente, il “fratello povero” del Giappone, da cui provenivano i giocattoli e le chincaglierie di poco valore, mentre dall’arcipelago asiatico provenivano non solo i cartoni animati con cui siamo cresciuti ma anche tecnologia, giocattoli elaborati (come i robot della Bandai o della Takara) e, perché no, sogni.

Oggi non è azzardato dire che le cose si siano ribaltate. Mentre il Giappone vive una stagnazione che sembra di difficile soluzione la terra dei draghi corre nello sviluppo, incurante, sembra, degli intoppi e degli ostacoli che si possano trovare lungo la strada. Per quanto possano sussistere dei dubbi sulla reale valenza dei numeri cinesi, anche per via della commistione stato/aziende e per un certo modello di credito interno non esattamente trasparente, è indubbio che l’idea di investire direttamente o finanziariamente in quella terra sia sempre più allettante.

Finito il tempo del rischio “copycat” visto il livello tecnologico che le imprese cinesi hanno raggiunto e la qualità della loro produzione che, senza aver paura di essere smentito, oggi rivaleggia se non supera quella di molti concorrenti occidentali (i casi di Xiaomi o Oppo nell’hi-tech su tutti) può essere interessante valutare quale tipologia di investimento possa essere più efficiente. Sicuramente l’investimento finanziario su Shangai. Come detto le grandi compagnie cinesi sono, ormai, a livello di quelle occidentali sia per livello di investimenti sia per redditività, un investitore professionale avrebbe solo l’imbarazzo della scelta nello stock picking per formare un portafoglio che possa dare grandi soddisfazioni ma per un investitore privato la cosa diventa più complessa, non potendo seguire costantemente i mercati e non accedendo, sicuramente, alle stesse condizioni operative di un professionista.

Una soluzione ottimale sarebbe quella dell’investimento indiretto tramite ETF o OICR che investano in area o in segmenti di mercato specifici, in questa maniera si andrebbe a ottimizzare sia il tempo sia il rischio relativo. Un discorso diverso sta nell’investimento diretto. Stante il sistema politico, nonostante il partito abbia voluto dare un modello giuridico occidentale al Paese, il rischio non è dei meno rilevanti, anzi benché il rischio politico sia bassissimo, visto che il potere è in mano ferrea al PCC, però ci sono altri punti da tenere in conto quando si decide di investire direttamente in un paese estero.

Per queste valutazioni è d’aiuto SACE (che, per chi non la conoscesse, è una società del gruppo CDP specializzata nel settore assicurativo per i rischi sugli investimenti, sul credito e sull’export) che nella sua scheda paese indica un discreto rischio sulla certezza del diritto, quindi sulla tutela della proprietà e la certezza contrattuale, e un rischio piuttosto elevato di guerre o disordini interni. È evidente che con degli alert simili non sarebbe molto proficuo investire direttamente con la costruzione di propri stabilimenti in loco ma, piuttosto con la creazione di opportune partnership come quelle storiche tra le aziende tecnologiche americane, come Apple e Qualcomm per fare due nomi, con TSMC che, se pur taiwanese ha la sede produttiva a Shangai) per la produzione dei SOC.

Una soluzione, questa, che permette di ottimizzare i punti forti della filiera produttiva locale, caratterizzata, oggi, non solo da una mano d’opera a basso prezzo ma, soprattutto, da un elevato know how e di minimizzare i rischi d’impresa, lasciandoli in capo al partner locale che, comunque avrebbe ogni interesse a lavorare con aziende europee o americane sia per il livello di ordinativi sia per poter usare la loro rete commerciale a proprio vantaggio.

In definitiva nessuno potrebbe essere così ingenuo da credere che si possa isolare una potenza economica, ormai, consolidata come la Cina, pur sapendo che i livelli di crescita a cui ci ha abituato negli ultimi quarant’anni non saranno sostenibili ancora a lungo, non solo per questioni meramente di mercato ma anche e soprattutto per le mutazioni sociali che nel tempo avverranno su tutto il territorio, oggi una, seppure ampia, minoranza ha uno stile di vita e redditi “occidentali”, presto questi livelli di benessere diverranno una richiesta improrogabile anche da parte delle centinaia di milioni di abitanti delle zone rurali o impiegati nelle catene produttive a basso costo salariale e, allora, il dragone muterà in maniera, oggi, inimmaginabile, forse, ma questo rappresenterà un’opportunità da cogliere per chiunque vi voglia investire a lungo termine e, in proposito, sono già rintracciabili dei fondi comuni di investimento che scommettano sulla crescita della domanda di beni di consumo in quelle zone.

Pensiamoci, seriamente, invece di avere timore di essere invasi dai cinesi che, come la storia insegna, non hanno mai avuto smanie coloniali ma solo voglia di fare affari e sarebbe stupido lasciare il timone solo in mano loro.

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