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Catalogna, il dialogo è ancora possibile?

L’Europa e il mondo intero stanno assistendo col fiato sospeso alle recenti vicende della Catalogna, una delle 16 comunità autonome del Regno di Spagna. Nel giorno del referendum per l’indipendenza la tensione è talmente alta che, secondo alcuni, un simile clima non si viveva dal 1934, due anni prima dell’inizio della Guerra civile spagnola. Quattro persone – appartenenti ai Comitati di difesa del referendum – sono rimaste lievemente ferite a seguito di una sparatoria avvenuta contro un seggio a Manlleu. Intanto, migliaia di trattori hanno occupato le strade della Catalogna e Barcellona per proteggere i luoghi dove dovrebbe avvenire la consultazione.

È scontro aperto con Madrid: l’esecutivo guidato da Mariano Rajoy è irremovibile, considera il referendum illegale e ribadisce che il premier del “govern” Carles Puidgemont “dovrà rispondere davanti ai tribunali” per la “grave slealtà istituzionale” di cui si è reso responsabile. Il Tribunal Supremo di Spagna, omologo della nostra Corte Costituzionale, ha sospeso il referendum per dubbi di costituzionalità sostenendo che il diritto internazionale prevede l’autodeterminazione solo in caso di dominio coloniale o occupazione straniera e che la Spagna è una e indivisibile.

Per impedire il voto sono stati chiamati 10 mila poliziotti; l’agenzia di Protezione dei dati ha minacciato di imporre multe fino a 600 mila euro alle persone che formeranno i seggi elettorali per “l’uso fraudolento” dei dati dei 5,3 milioni di elettori. Se l’amministrazione catalana proclamerà la vittoria del sì entrerebbe in vigore la “ley de desconexión” (legge di separazione) che prevede la possibilità di una “dichiarazione unilaterale di indipendenza entro 48 ore”. Nei giorni scorsi la Guardia Civil aveva arrestato 14 funzionari ed esponenti del governo denunciati per “sedizione”, confiscato schede elettorali e software, chiuso siti web, vietato l’uso dei locali pubblici, diffidato sindaci e presidi dal collaborare al voto e ipotizzato il reato di malversazione di denaro pubblico. Poco prima circa 700 sindaci catalani, su 948, erano stati indagati dalla procura di Stato spagnola per essersi schierati pro referendum.

Il presidente catalano, per contro, ha denunciato “l’atteggiamento totalitario” del governo centrale e ha affermato che questo “ha oltrepassato la linea rossa che lo separa dai regimi antidemocratici”. Madrid può però contare sull’appoggio dell’Unione europea; la posizione della Commissione Ue è stata chiara: il referendum viola la costituzione spagnola. Finora il contesto non è paragonabile a quello generato dall’indipendentismo basco, che dal 1968 al 2011 ha provocato 800 morti, ma il rischio è che il clima diventi sempre più rovente e che nelle grandi manifestazioni, finora pacifiche, si possa insinuare il germe dello scontro violento. Senza contare le preoccupazioni per eventuali terroristi che potrebbero sfruttare a loro vantaggio la situazione di disordine compiendo un attacco eclatante.

Più di tutto, nell’attuale escalation, risulta evidente un’enorme difficoltà nel trovare una mediazione politica da entrambe le parti. I vescovi europei e anche quelli spagnoli hanno auspicato che il Paese iberico, in questo delicato momento, trovi la via del “dialogo costruttivo per il bene comune e per una soluzione condivisa” evitando che istituzioni e cittadini intraprendano “decisioni e azioni irreversibili e con conseguenze gravi, che li situino al margine della pratica democratica protetta dalle legittime leggi”. Il dialogo è una risorsa insostituibile: esso è sempre il primo e il più importante passo per la costruzione della libertà, della giustizia e della pace. Quando le società costruiscono muri rinunciando ad ascoltarsi, spingono l’umanità verso incomprensioni e divisioni irreparabili che impediscono di trovare un accordo al di là delle differenze.

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